La nota che l’Assemblea rabbinica d’Italia ha pubblicato giorni fa, attaccando papa Francesco, rappresenta la più grave crisi tra un pontefice e l’ebraismo italiano dai tempi del Concilio ad oggi. Immaginare di sminuire non ha senso. Anche in un passato non troppo lontano vi erano state tensioni. Con Benedetto XVI emersero forti critiche nell’eventualità di una beatificazione di Pio XII. Un’altra fase di tensione si ebbe quando papa Ratzinger ritirò la scomunica comminata al vescovo scismatico lefebvriano Richard Williamson, notoriamente negazionista.
Ma in entrambi i casi venivano criticati alcuni atti di governo del pontificato. Ora invece viene attaccato frontalmente Francesco in persona, mettendo in forse il dialogo ebraico-cattolico si qui sviluppato.
“Ci domandiamo – afferma il documento – a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa”. Le parole sono pietre. Non c’è dubbio che il documento metta a nudo un nervo scoperto dell’azione della Santa Sede in questo scorcio storico. Precisamente nei confronti della guerra russo-ucraina e del conflitto israelo-palestinese.
Sarebbe stato un segno potente se all’indomani dell’invasione russa papa Bergoglio, oltre a scongiurare l’ambasciatore di Mosca a fermare l’azione di Putin, si fosse recato nella chiesa greco-cattolica ucraina di Santa Sofia a Roma per una solenne preghiera a protezione della loro patria. Egualmente c’è chi pensa che papa Francesco, che pure subito dopo il barbaro attacco di Hamas del 7 ottobre espresse solidarietà alle famiglie e a quanti “stanno vivendo ore di terrore e di angoscia”, avrebbe potuto accompagnare la sua vicinanza con un gesto simbolico immediato rivolto ai familiari delle vittime. In ogni caso Bergoglio ha denunciato immediatamente la “violenza esplosa ferocemente provocando centinaia di morti e feriti”.
Resta il fatto che dopo Pio XII la Santa Sede ha scelto di non essere mai più allineata ad uno Stato o a un blocco, ma di collocarsi rigorosamente al di sopra delle parti. Unico modo per avere una voce credibile a livello internazionale. Tanto più che la storia ha mostrato che i terroristi di ieri sono stati in seguito acclamati come uomini di Stato. E gli innominabili, con cui non bisognava negoziare mai, sono spesso diventati con il tempo partner di accordi alla luce del sole.
Tuttavia, c’entra tutto questo con il dialogo-ebraico cristiano? E’ difficile sostenerlo. In tutti questi decenni il dialogo ebraico-cristiano ha stimolato il superamento dell’intollerabile antigiudaismo che le confessioni cristiane si trascinavano dietro da secoli, alimentando anche feroci pogrom. Il dialogo, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI a Francesco, è anche servito per portare sempre più alla luce la tempra ebraica di Gesù di Nazareth e lo stretto legame tra i cristiani e quelli che il cardinale Ratzinger chiamava “nostri padri nella fede”.
Tutto questo non c’entra nulla con la valutazione delle vicende storiche e politiche in cui si trova coinvolto lo Stato di Israele. Anche Benedetto XVI, come già papa Wojtyla, tenne sempre la Santa Sede ancorata ad una posizione laica.
C’è un falso nella nota diffusa nei giorni scorsi. L’affermazione che tra i detenuti palestinesi liberati dal governo israeliano (e che Bergoglio metterebbe sullo stesso piano di “innocenti strappati alle loro famiglie”) vi siano persone “detenute spesso per atti gravissimi di terrorismo”.
Non c’è finora – per espressa volontà del governo Netanyahu – un solo condannato per omicidio. Ci sono invece minori imprigionati senza processo, unicamente per avere lanciato sassi contro soldati israeliani.
C’è anche un vuoto nella nota. Una minima riflessione sulla strage dei quindicimila civili a Gaza, non a caso al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Sorge la domanda: questi morti sono polvere sotto gli zoccoli dei cavalli dei carri da guerra d’Israele – per usare un’immagine antica – oppure esseri umani il cui massacro è insostenibile?
Si tratta di questioni che superano polemiche di basso conio. Israele, i palestinesi e gli Stati arabi confinanti si trovano dinanzi ad una svolta storica di grande rilievo. Ogni protagonista è chiamato a rispondere dei suoi comportamenti. E le guide religiose possono dare o non dare un contributo importante per aprire una pagina nuova.
Vale anche per la diaspora ebraica il cui peso non è indifferente.
L’interrogativo è se intende dare il suo appoggio alla strategia lungimirante di Biden, presidente del paese alleato di ferro di Israele, esprimendosi apertamente per la nascita di uno Stato palestinese pacificamente a fianco dello Stato israeliano oppure se intende benedire con il suo silenzio la cinica strategia di Netanyahu che ha favorito Hamas per cancellare la questione palestinese. Victor Magiar, esponente dell’Unione comunità ebraiche italiane, ha scritto pochi giorni fa che la formula due Stati, due popoli sarebbe il “trionfo di Israele”, la pace come “coronamento del proprio traguardo storico”.
Un documento in questo senso aiuterebbe a sbarrare la strada definitivamente all’oltranzismo nazionalista e al fanatismo messianico religioso che Netanyahu – ma non solo lui – ha rappresentato con effetti nefasti. Anche domenica Francesco ha esortato a spezzare la spirale dell’odio e il circolo della vendetta. Sottolineando che il “dialogo è l’unica via per avere pace”.