“Tutti i palestinesi sono scomparsi all’improvviso: e ora cosa si fa?”. Intorno a questa domanda Ibtisam Azem, scrittrice palestinese di base a New York, ha costruito il suo romanzo “Il libro della scomparsa”, edito da Hopefulmonster e tradotto dall’arabo da Barbara Teresi. E’ mattino quando Ariel si sveglia e si accorge che sono spariti i palestinesi. La notizia si sparge. “E’ un atto terroristico? Sono tutti fuggiti? Se li è portati via Dio?”: tante domande, nessuna risposta. L’esercito di Tel Aviv viene mobilitato per creare un cordone di sicurezza intorno a tutta la Cisgiordania, ormai diserta, per presidiare le case mentre una miriade di coloni israeliani comincia a mettersi in marcia per prendere possesso delle città disabitate.
“La sparizione dei palestinesi nel mio romanzo ha una lettura simbolica, anche se collegata a fatti veri” racconta Ibtisam, raggiunta al telefono a New York da Ilfattoquotidiano.it. “La Nakba del 1948 è stato il primo tentativo di far scomparire i palestinesi dalla loro terra. In quell’anno le milizie sioniste, poi trasformatesi nell’esercito israeliano, hanno commesso massacri, distrutto o svuotato oltre 500 località, obbligando 750.000 palestinesi a fuggire dalle proprie case”. E puntualizza: “Israele non ha mai permesso a queste persone, o ai loro discendenti, di ritornare nelle proprie terre nonostante il diritto internazionale e la risoluzione 194 dell’Onu tutelino il loro diritto al ritorno”.
Cosa vuole dire scomparire per i palestinesi?
Scomparire ha molti significati: la Palestina, come entità statuale e geografica, è oggi esclusivamente preda delle politiche coloniali israeliani. La narrativa palestinese è assente nello spazio pubblico, nei musei, nel cambio dei nomi delle vie e delle città. A restituirla, almeno nel romanzo, sono Alaa e sua nonna palestinese. Ma la scomparsa, quando il mito della fondazione è basato sull’esistenza di un nemico immaginario, porta con se un’altra domanda: come agirebbe una società se il suo “nemico” sparisse?
In questo senso, sul tavolo del governo israeliano sono arrivate almeno due proposte, mai attuate, per svuotare completamente Gaza dalla componente palestinese, attraverso l’emigrazione della popolazione verso il Sinai.
Il mio libro, pubblicato in arabo, è uscito nel 2014, con l’intenzione di mettere in guardia rispetto a questi possibili scenari futuri, oggi concretizzatosi a Gaza. C’è un genocidio commesso davanti al mondo, mentre i governi occidentali osservano e mandano armi ad Israele. Rimangono in silenzio, nonostante oltre 14.000 palestinesi uccisi in meno di 2 mesi. L’ipocrisia e il doppio standard è molto evidente, specialmente se compariamo il linguaggio usato per l’invasione russa dell’Ucraina e quello per l’uccisione dei palestinesi nella Striscia. La loro è una situazione difficile che va avanti da 75 anni.
Ha adoperato la parola genocidio. Non ritiene quello in corso un conflitto?
Quello che sta accadendo non è “un conflitto”. Questi termini cancellano i crimini commessi contro i palestinesi, evitando di chiamarli per come dovrebbero essere: quello che sta avvenendo a Gaza è un genocidio. Invece, ciò che accade ai palestinesi nella West Bank o a Gerusalemme si chiama: espropriazione delle terre, sfollamento dei palestinesi, costruzione di colonie, incoraggiando la violenza dei coloni, e incarcerazione arbitraria di bambini. Sono tutte azioni che vanno avanti da molto tempo e sono documentate da istituzione internazionali, come l’Onu, e organizzazioni umanitarie anche israeliana, come B’tselem. Se tutte queste informazioni sono disponibili al pubblico, la domanda è: perché i media occidentali non ne parlano? Mentre le persone nel mondo si devono porre queste domande: come si sentirebbero se fossero palestinesi per un giorno? E se fossero a Gaza per un giorno?
Va bene colpevolizzare l’Occidente, ma i paesi arabi e l’Autorità Nazionale palestinese cosa hanno fatto fino ad ora?
Quando critichiamo i governi occidentali bisogna distinguere fra questi e le loro popolazioni. Le politiche estere, ma anche quelle domestiche, spesso non riflettono il volere dei cittadini. Un buon esempio è la guerra degli Usa contro l’Iraq nel 2003: milioni di persone scesero in piazza a protestare contro quel conflitto, ma i governi non ascoltarono. Qualcosa di simile sta avvenendo ora con la guerra israeliana contro Gaza. Negli Stati Uniti, in milioni chiedono il cessate il fuoco. I manifestanti non sono solo arabi o musulmani americani, ma provengono da tutte le fasce della società, incluso ebrei americani. E il governo americano come ha risposto? Ha mandato miliardi di dollari e armi per sostenere la guerra. Dei governi arabi sappiamo che sono dittature che opprimono le loro popolazioni e hanno strumentalizzato la questione palestinese. Per questo non ci aspettiamo che supportino genuinamente la nostra causa. Mentre l’autorità palestinese, guidata da Mahmud Abbas, è solo uno strumento in mano agli israeliani. Il fatto centrale però rimane: Israele è quello che occupa, opprime, controlla e colonizza i palestinesi.
Nel romanzo, Ariel, protagonista israeliano, trova e legge il diario dell’amico palestinese, Alaa. La memoria sembra il contrario della scomparsa. Ricordare il passato pare la soluzione. Anche nella realtà?
La memoria è un tema importante nel romanzo ed è cruciale per me. A perseguitarmi è l’assenza o la rimozione della narrazione e della memoria palestinese, non solo nella società israeliana ma anche nei media occidentali. Ogni guerra o evento in Palestina è rappresentato senza contesto o storia, come se fosse assestante. Se l’esercito israeliano bombarda Gaza o altre aree, questo evento vien rappresentato come atto di “auto difesa” o ritorsione giustificata. Ma se sono i palestinesi a mobilitarsi contro l’occupazione, allora è terrorismo: non c’è diritto all’auto difesa, nonostante internazionalmente sia riconosciuto il diritto di resistere all’occupazione. Mahmoud Darwish, poeta palestinese, scriveva che “gli invasori sono impauriti dalla memoria”. Essa è la risorsa che preserva la nostra storia collettiva, a discapito di quelle narrative che vogliono cancellare o negare la nostra presenza in Palestina.
E sul futuro di Gaza, chi ne prenderà il controllo?
Quello che so è che i palestinesi, dentro o fuori la Striscia, vogliono la libertà, l’autodeterminazione, la giustizia e vivere in pace nella loro terra natale. Il futuro di Gaza è parte del futuro della Palestina. Non so se vedrò il giorno in cui saremo liberi. Ma so che quel giorno arriverà.