Tra pochi giorni si aprirà a Dubai la ventottesima puntata del Summit Mondiale sul Clima. Si parlerà di tutto e di più, ma soprattutto di soldi, di crediti e debiti, di cambiali in bianco e assegni cabriolet. Il giudizio sul successo o il fallimento di queste prime 28 puntate sarà un esercizio dei posteri, perché la latenza del sistema nega, soprattutto a chi è più avanti con l’età, ogni possibilità di giudicare seriamente.
Proprio per l’ammuina climatica che ci attende, mi permetto qui di ricordare che cosa intendiamo per clima, giacché la crisi climatica che si sta iniziando a sperimentare è una crisi a tutto campo: mette giocoforza in secondo piano i concetti fondamentali.
La paternità della parola clima viene di solito attribuita a Eratostene che studiò l’angolo di inclinazione del sole rispetto alla superficie terrestre in un posto specifico (Figura 1). Eratostene di Cirene descrisse “strette fasce di terra delimitate da sette paralleli di latitudine” che chiamò climi. Egli è perciò il fondatore riconosciuto della climatologia geografica, una scienza che si proponeva di descrivere e distinguere le caratteristiche delle diverse regioni in riferimento alle diverse altitudini del sole. E divenne la base non solo del pensiero aristotelico, ma anche del linguaggio comune: clima mediterraneo e clima alpino fanno parte del lessico familiare.
Il più influente testo antico sul clima è però attribuibile a Ippocrate (Figura 2). Il suo trattato “Sulle arie, sulle acque e sui luoghi” ha influenzato profondamente la scienza. Nella prima parte del trattato Ippocrate descrive l’impatto del clima e di altri fattori ambientali sulla salute umana. La seconda parte del trattato è una esposizione dell’influenza dei fattori climatici e geografici sulle differenze culturali delle nazioni in Europa e Asia.
Secondo Ippocrate, i paesi centrali – come la Grecia – eccellono rispetto ad altri a causa del clima favorevole. Sotto questo profilo, le idee di Ippocrate delineano una climatologia causale. Le variazioni di questo insieme di idee, che di solito viene definito determinismo climatico, hanno avuto un grande impatto sul pensiero occidentale lungo il corso della storia. Tutti noi abbiamo in testa l’idea di clima salubre e clima malsano, senza tanti calcoli o misure.
Nel Settecento, la “Encyclopédie” curata da Denis Diderot e Jean d’Alembert, che si proponeva di raccogliere tutta la conoscenza disponibile all’epoca, riflette ancora l’influenza delle idee antiche sul clima e testimonia la pluralità dei suoi significati. La voce sul clima, scritta da Jean d’Alembert e pubblicata nel 1753, forniva tre diverse definizioni del termine.
In una prima definizione, il clima veniva a coincidere con le zone di latitudine, moderna reminiscenza dell’antica climatologia geografica. Una seconda definizione associava il clima alle caratteristiche dei paesi e dei luoghi in armonia con la climatologia causale di Ippocrate. Più moderna era la terza definizione, che descriveva il clima «semplicemente secondo la temperatura o il grado di calore a essi propri: clima, in questo senso è esattamente sinonimo di temperatura». Era finalmente accettata la lezione di Leonardo e, soprattutto, Galileo.
La meteorologia e la climatologia dei secoli XVII e XVIII non costituivano un corpo omogeneo, ma un ampio campo di idee e attività che coinvolgevano comunità e interessi diversi, secondo diverse interpretazioni del tempo e del clima. Filosofi naturali e scienziati iniziarono a interessarsi al tempo meteorologico e al clima; naturalisti e medici iniziarono a studiarlo; nobiltà, clero e insegnanti iniziarono a osservare il tempo, a raccogliere le registrazioni meteorologiche, a conservare in modo sistematico i dati delle osservazioni. Sempre più importanza al meteo e al clima fu attribuita non solo dagli agricoltori e dai guerrieri, che da sempre si confrontavano con il clima, ma anche dai botanici e dagli esploratori.
La comprensione del clima non era più statica, ma soggetta a trasformazioni significative, pari passo con l’espansione del mondo conosciuto dagli europei. Nel corso del Settecento, la predominante tradizione aristotelica della meteorologia lasciò finalmente il posto a nuove idee sul tempo e sul clima, basate sull’osservazione sistematica delle variabili fisiche che lo caratterizzano, prima la temperatura e subito dopo le precipitazioni. La climatologia causale ippocratica, al contrario, conobbe un forte risveglio e fu ripresa e rimodellata sia sotto forma di climatologia medica, sia in teorie filosofiche e sociali più ampie sull’impatto del clima su popoli, nazioni e civiltà.
Fin dall’antichità, l’umanità ha preso in considerazione la possibilità di accomodare il clima alle proprie necessità. Naturalmente a scala ridotta, come nell’antica Grecia, dove si discuteva se prosciugare le paludi o abbattere le foreste potesse portare più o meno precipitazioni su quella regione. Per arrivare al pastore e ornitologo Johann Forster (Figura 3) che accompagnò il capitano Cook durante la sua seconda circumnavigazione del Pacifico (1772-75).
Egli annotava come la deforestazione delle isole Barbados e Capo Verde avesse causato terribili siccità. Per contro, egli commentava positivamente il comportamento degli inglesi, che, nella colonizzazione delle Indie Orientali, si erano preoccupati di vincolare una certa estensione di foreste riservate alla pioggia sulle montagne più alte, vietandovi il taglio dei boschi. Nell’Ottocento, la consapevolezza dell’influenza antropica sul clima crebbe enormemente al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.
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