Tra pochi giorni si aprirà a Dubai la ventottesima puntata del Summit Mondiale sul Clima. Si parlerà di tutto e di più, ma soprattutto di soldi, di crediti e debiti, di cambiali in bianco e assegni cabriolet. Il giudizio sul successo o il fallimento di queste prime 28 puntate sarà un esercizio dei posteri, perché la latenza del sistema nega, soprattutto a chi è più avanti con l’età, ogni possibilità di giudicare seriamente.
Proprio per l’ammuina climatica che ci attende, mi permetto qui di ricordare che cosa intendiamo per clima, giacché la crisi climatica che si sta iniziando a sperimentare è una crisi a tutto campo: mette giocoforza in secondo piano i concetti fondamentali.
Secondo Ippocrate, i paesi centrali – come la Grecia – eccellono rispetto ad altri a causa del clima favorevole. Sotto questo profilo, le idee di Ippocrate delineano una climatologia causale. Le variazioni di questo insieme di idee, che di solito viene definito determinismo climatico, hanno avuto un grande impatto sul pensiero occidentale lungo il corso della storia. Tutti noi abbiamo in testa l’idea di clima salubre e clima malsano, senza tanti calcoli o misure.
Nel Settecento, la “Encyclopédie” curata da Denis Diderot e Jean d’Alembert, che si proponeva di raccogliere tutta la conoscenza disponibile all’epoca, riflette ancora l’influenza delle idee antiche sul clima e testimonia la pluralità dei suoi significati. La voce sul clima, scritta da Jean d’Alembert e pubblicata nel 1753, forniva tre diverse definizioni del termine.
In una prima definizione, il clima veniva a coincidere con le zone di latitudine, moderna reminiscenza dell’antica climatologia geografica. Una seconda definizione associava il clima alle caratteristiche dei paesi e dei luoghi in armonia con la climatologia causale di Ippocrate. Più moderna era la terza definizione, che descriveva il clima «semplicemente secondo la temperatura o il grado di calore a essi propri: clima, in questo senso è esattamente sinonimo di temperatura». Era finalmente accettata la lezione di Leonardo e, soprattutto, Galileo.
La meteorologia e la climatologia dei secoli XVII e XVIII non costituivano un corpo omogeneo, ma un ampio campo di idee e attività che coinvolgevano comunità e interessi diversi, secondo diverse interpretazioni del tempo e del clima. Filosofi naturali e scienziati iniziarono a interessarsi al tempo meteorologico e al clima; naturalisti e medici iniziarono a studiarlo; nobiltà, clero e insegnanti iniziarono a osservare il tempo, a raccogliere le registrazioni meteorologiche, a conservare in modo sistematico i dati delle osservazioni. Sempre più importanza al meteo e al clima fu attribuita non solo dagli agricoltori e dai guerrieri, che da sempre si confrontavano con il clima, ma anche dai botanici e dagli esploratori.
La comprensione del clima non era più statica, ma soggetta a trasformazioni significative, pari passo con l’espansione del mondo conosciuto dagli europei. Nel corso del Settecento, la predominante tradizione aristotelica della meteorologia lasciò finalmente il posto a nuove idee sul tempo e sul clima, basate sull’osservazione sistematica delle variabili fisiche che lo caratterizzano, prima la temperatura e subito dopo le precipitazioni. La climatologia causale ippocratica, al contrario, conobbe un forte risveglio e fu ripresa e rimodellata sia sotto forma di climatologia medica, sia in teorie filosofiche e sociali più ampie sull’impatto del clima su popoli, nazioni e civiltà.
Fin dall’antichità, l’umanità ha preso in considerazione la possibilità di accomodare il clima alle proprie necessità. Naturalmente a scala ridotta, come nell’antica Grecia, dove si discuteva se prosciugare le paludi o abbattere le foreste potesse portare più o meno precipitazioni su quella regione. Per arrivare al pastore e ornitologo Johann Forster (Figura 3) che accompagnò il capitano Cook durante la sua seconda circumnavigazione del Pacifico (1772-75).
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