di Carmelo Sant’Angelo
Mio nonno ha fatto le “scuole alte”. Nel 1924 ha conseguito la licenza elementare. Stesso titolo raggiunto anche dal fratello. La sorella, sebbene più curiosa ed intelligente di entrambi i fratelli, è stata costretta a fermarsi alla seconda elementare. I miei bisnonni ritenevano che per la donna fosse sufficiente saper leggere e scrivere. Per lei era più importante saper ricamare e imparare ad accudire alle faccende domestiche. Alla fine degli anni 60, mio nonno riteneva che la fine del mondo fosse vicina. Aveva annoverato di diritto tra i segni dell’apocalisse il rilascio della licenza di guida alle donne. O tempora, o mores! Tra i congiurati, che avrebbero favorito questa inevitabile tragedia, figurava anche sua nuora, cioè mia mamma.
Negli anni 80, a conclusione dei pranzi di festa, mio nonno mi regalava diecimila lire, a mia sorella ne dava la metà. Quando mia madre protestava lui si difendeva ipocritamente: “Lui merita di più perché porta il mio nome; a lei ci deve pensare l’altra nonna”. I miei genitori rimediavano con un salvadanaio in comune.
Questo è uno spaccato della cultura patriarcale. Dopo tutti questi anni la società è cambiata. Ci sono, purtroppo, forti disparità tra uomo e donna, ma voglio sperare che non accadano, all’interno delle mura domestiche, discriminazioni come quelle sopra descritte. La sorella di Giulia Cecchettin, più di chiunque altro, ha il sacrosanto diritto di indicare le colpe e i responsabili dell’omicidio della sorella. A mio avviso, però, da semplice uomo della strada, puntando al patriarcato si rischia di mirare ad un bersaglio sbagliato. Poiché non ho la verità in tasca, userò il rasoio di Occam, eliminando, con tagli di lama, tutte le strade più complicate e imboccando quella più immediata e plausibile.
A me pare che occorra interrogarsi sulle dichiarazioni fatte dal padre dell’odierno indagato: “non abbiamo mai fatto mancare niente a nostro figlio (…) Da padre ho cercato di dargli tutto”. Potrebbe forse essere questo il problema? Oggi molti genitori non sanno dire di “no”. I figli non sono abituati al rifiuto, hanno sempre tutto ciò che desiderano. Se non lo ricevono dai loro genitori, l’avranno dai loro zii o dai nonni. In Italia, ogni bimbo può disporre di almeno una decina di tutori, tutti pronti a sostituirsi ai legittimi genitori. Ragazzini che scartano i regali senza alcuna emozione e li accantonano con la stessa estrema e noiosa disinvoltura. Doni che piovono sulle loro teste senza alcuna ricorrenza o alcun specifico merito degli interessati; molto spesso, solo per placare il senso di inadeguatezza degli adulti in cerca di una facile autoindulgenza.
Nessuno insegna ai minori a desiderare qualcosa, a conquistarla con l’abnegazione e la fatica. I genitori sono i sindacalisti dei loro figli, li giustificano su ogni aspetto che li veda coinvolti: l’insegnante ha torto; l’allenatore della squadra di calcio non capisce niente; sono i compagni di classe che lo trascinano a compiere condotte sbagliate; lui si è solo difeso; è un ragazzo buono che non farebbe male nemmeno ad una mosca… I loro figli sono sempre dalla parte del giusto. Tutto gli è dovuto; tutto gli è consentito; il mondo gira intorno a loro.
Se anziché mirare al patriarcato si puntasse alle modalità di esercizio della genitorialità allora anche coloro che oggi si ritengono estranei al problema del femminicidio, perché non portatori di una cultura patriarcale, sarebbero indotti a farsi un serio esame di coscienza. Sto educando un figlio fornendogli tutte le istruzioni per volare fuori dal nido o sto crescendo un piccolo lord onusto di privilegi?