L’ex Ilva barcolla sull’orlo del precipizio. L’acciaieria rischia di avere i giorni contati prima di finire in liquidazione se ArcelorMittal e il governo non troveranno un accordo sulla ricapitalizzazione per rimpolpare le casse esangui. Acciaieria d’Italia – la società che gestisce gli stabilimenti partecipata al 62% dal player industriale e al 38% da Invitalia, società controllata dal ministero dell’Economia – non ha più un euro e naviga a vista, priva persino di un contratto per la fornitura annuale di gas. Solo che i soci non riescono ad arrivare a un’intesa sui soldi da iniettare per mantenere in vita gli impianti ed evitare la liquidazione. Meglio, l’accordo appare introvabile. ArcelorMittal ha fatto sapere che non vuole partecipare all’aumento di capitale e il governo è in un angolo. Sembra quindi stagliarsi all’orizzonte il più fosco degli scenari, quello che i maligni hanno sempre prospettato come il vero disegno di Mittal: la possibilità che l’ex Ilva chiuda.
Lo stato dell’arte – Perché gli altiforni di Taranto restino accesi servono almeno 320 milioni. Senza contare i debiti nei confronti dei fornitori che ammontano ad altre centinaia di milioni, a iniziare dai 208 dovuti a Snam per il gas. E nel frattempo lo stabilimento pugliese sforna sempre meno acciaio a causa della crisi di liquidità: il 2023 si chiuderà con 3 milioni scarsi di tonnellate prodotte, sì e no il 70% delle previsioni di inizio anno, e con ancora 3.500 lavoratori in cassa integrazione a rotazione. Due mesi fa il ministro agli Affari Europei Raffaele Fitto, dopo aver estromesso Adolfo Urso dal dossier, aveva firmato un memorandum of understanding all’insaputa di Invitalia nel quale si programmavano, come svelato da Il Fatto Quotidiano, 4,62 miliardi di euro di investimenti sostanzialmente senza impegni per il socio privato. Ma l’amministratrice delegata Lucia Morselli, espressione di Mittal, sembra tirare dritto nonostante le rassicurazioni finanziarie del governo per la decarbonizzazione.
Il rischio dello stop al gas – Il tutto con un rischio incombente: l’acciaieria di Taranto tra 40 giorni resterà senza gas. Il Tar della Lombardia ha sospeso fino al 10 gennaio 2024 la discatura dei punti di riconsegna, previsti da Snam tra l’8 e il 9 novembre. La fornitura d’emergenza è quindi garantita a termine. Ma i giudici amministrativi hanno già sostanzialmente detto che l’ex Ilva dovrà nel frattempo dovrà trovare un nuovo venditore. E qui nascono i problemi, visto che Snam era fornitore di ultima istanza dopo i ritardi nei pagamenti con Eni nell’anno precedente. Lo scorso 17 ottobre il presidente Franco Bernabè, uomo che rappresenta Invitalia, ha detto davanti alla commissione Attività Produttive che la società non è neanche in grado di versare i 100 milioni di euro necessari come caparra per assicurarsi un contratto.
Lo scontro in assemblea – C’è urgenza, insomma, di arrivare a un accordo prima che l’ex Ilva, in consunzione da anni, si ritrovi definitivamente decotta. ArcelorMittal si è presentata con la “pistola” sul tavolo nella terza puntata di un’assemblea aperta da settimane. Non vuole partecipare all’aumento di capitale, almeno non con le attuali proporzioni nel capitale. L’invito implicito è rivolto a Invitalia: converta il prestito obbligazionario di 680 milioni, erogato a primavera, in capitale. Insomma, si prenda la maggioranza, esercitando la possibilità fornita dall’ultimo decreto Salva Ilva. Uno scenario che però Acciaierie d’Italia ha smentito in una nota. L’opzione, tra l’altro, sarebbe indigesta a Fitto, che proprio sulla questione del controllo dello Stato sulle acciaierie si è scontrato negli scorsi mesi con Urso, finendo per allontanare il ministro delle Imprese dal dossier.
Lo spettro del “peccato originale” – Ora però Mittal lo mette spalle al muro con una mossa che può fare carta straccia anche dell’ultima intesa al ribasso accettata dallo Stato a settembre. Del resto le azioni del colosso mondiale dell’acciaio degli ultimi anni – a iniziare dalla deconsolidazzione dal gruppo, nel marzo 2021, della partecipazione in Acciaierie d’Italia – puntano sempre più a un disimpegno. E lasciano intravedere la possibilità di un vero e proprio addio, con gli impianti a un passo dallo spegnimento, che riattualizzerebbe uno scenario ipotizzato dai commissari straordinari nel pieno della guerra legale del 2019: ovvero che esistesse un disegno di ArcelorMittal, mai dimostrato, per “distruggere l’acciaieria” ed “eliminare un concorrente” in Europa. Se ne capirà di più il 6 dicembre, quando è stata convocata una nuova assemblea dopo quella chiusa martedì con un nulla di fatto. All’ordine del giorno ci sarà un nuovo tentativo di accordo, forse partendo da un “piano” di Mittal, per provare a salvare Acciaierie d’Italia, sempre più ostaggio del suo socio privato. La via è stretta, i tempi per trovare una soluzione anche di più.