Gli aiuti a Israele non sono “senza condizioni”. Dopo quasi due mesi di bombardamenti, oltre 14mila morti e 1,7 milioni di sfollati a Gaza, l’amministrazione di Joe Biden compie un ulteriore, sensibile aggiustamento, allontanandosi ancor di più dalle posizioni israeliane. Negli show in tv della domenica mattina, il consigliere alla sicurezza nazionale Jake Sullivan ha spiegato che il presidente “crede che ogni operazioni militare debba essere condotta in modi che proteggano i civili, che distinguano tra terroristi e civili, che rendano possibile l’accesso dei civili agli aiuti umanitari”. Ancora più esplicito il vice di Sullivan, Jon Finer: “Non esiste assistenza americana a qualsiasi Paese che sia senza condizioni”. Le dichiarazioni di due tra i principali funzionari dell’amministrazione arrivano poche ore prima che Biden intervenga nel dibattito come una sentenza: “Continuare sulla strada del terrore, della violenza, degli omicidi e della guerra significa dare a Hamas ciò che cerca. Non possiamo farlo”. Tutto questo segnala un dato ormai davanti agli occhi di tutti: gli interessi di Joe Biden e quelli del governo di Benjamin Netanyahu divergono in modo sostanziale. Più in generale, Biden appare oggi alla disperata ricerca di vie d’uscita dal conflitto – in Israele ma anche in Ucraina – senza le quali potrebbe pagare un prezzo molto alto alle Presidenziali del novembre 2024.
Va ricordata anzitutto una cosa. Al momento, tutta l’assistenza militare chiesta dal presidente Usa – oltre 100 miliardi di dollari per le guerre in Israele e Ucraina, oltre che per Taiwan e la sicurezza al confine meridionale – è bloccata al Congresso, ostaggio degli opposti ricatti e di un estenuante braccio di ferro tra le fazioni. I Repubblicani conservatori che controllano la Camera vogliono finanziare Israele ma non l’Ucraina e sono disposti a fare concessioni soltanto se i Democratici aumenteranno il loro impegno per la militarizzazione del confine meridionale e acconsentiranno ai tagli all’Irs, l’agenzia delle tasse. I Democratici non sono disponibili ai tagli all’Irs e temono di entrare in collisione con la propria base elettorale ispanica se daranno il via libera ai nuovi fondi per la sicurezza al confine. I Repubblicani del Senato non sono peraltro disponibili a chiudere i rubinetti del finanziamento a Kiev e si mostrano apertamente insofferenti nei confronti dei loro compagni di partito della Camera. Chuck Schumer, il leader democratico del Senato, ha inviato domenica una lettera ai colleghi spiegando di voler portare il pacchetto in aula per il voto a partire da lunedì 4 dicembre. Non c’è però alcuna garanzia che questo venga approvato. In altre parole: Tel Aviv e Kiev potrebbero restare senza assistenza militare Usa almeno sino all’inizio del nuovo anno. Non c’è quindi bisogno di minacciare il governo israeliano di blocco dei fondi. I fondi non arriveranno comunque, almeno per il momento.
Oltre al tema del confronto politico a Washington, c’è però qualcosa di più profondo e capitale per Joe Biden. Riguarda, appunto, la sostenibilità delle strategie seguite sinora e l’impatto che queste avranno sul suo futuro politico. Poco è andato nel senso pianificato dall’amministrazione Usa che si ritrova ora con due guerre in corso, di cui non si intravede la fine, un ordine internazionale sempre più caotico, un prestigio internazionale ampiamente compromesso, spaccature profonde nel Partito Democratico, una situazione interna in cui la guerra ha fatto esplodere tensioni etniche e razziali mai sopite. L’ultimo episodio arriva da Burlington, Virginia. Un uomo bianco di 48 anni ha sparato sabato sera contro tre studenti di origini palestinesi che indossavano la kefiah. Le condizioni di uno dei tre ventenni sono gravi. La polizia indaga ma “considerato il momento particolarmente caldo esiste il sospetto che la sparatoria abbia motivazioni di odio razziale”. Sarebbe solo l’ultimo episodio di una lunga serie di scontri e violenze che il conflitto a Gaza ha fatto esplodere anche all’interno degli Stati Uniti.
Il problema, appunto, è la debolezza delle strategie implementate dall’amministrazione in questi mesi. A Gaza, ma anche nella guerra in Ucraina. Un segnale importante è venuto lo scorso 17 novembre con un pezzo che Richard Haass e Charles Kupchan hanno scritto per Foreign Affairs. I due appartengono all’establishment politico più influente di Washington: Haass, tra le altre cose, è stato collaboratore di Colin Powell ai tempi dell’amministrazione di George W. Bush. Nell’articolo propongono ciò che sino a qualche tempo fa era quasi un tabù: “Ridefinire la nozione di successo in Ucraina”. Pensare che l’obiettivo finale non debba per forza essere quello della riconquista totale del territorio ucraino, ma che possa essere considerato “un successo” anche il mantenimento di un’Ucraina indipendente da Mosca. Secondo Haass e Kupchan, questa ridefinizione degli obiettivi è giustificata da tutta una serie di elementi: l’arrivo prossimo dell’inverno, senza che la controffensiva abbia davvero cambiato le sorti della guerra; le vittorie elettorali, in Europa, di partiti e movimenti poco propensi a continuare nei finanziamenti a Kiev (ultimo, nei Paesi Bassi, quello di Geert Wilders); l’incombere delle Presidenziali americane, con la necessità per l’amministrazione Usa di concentrarsi sui temi della politica interna.
Haass e Kupchan, che per l’appunto conoscono molto bene gli ambienti della politica di Washington, dicono che una riflessione di questo tipo è in corso nell’amministrazione. Biden e i suoi collaboratori starebbero infatti contemplando l’insuccesso dei loro piani e riflettendo sulle possibili contromisure. La strategia americana è sempre stata quella di fornire significativa assistenza militare a Kiev, ma in modo graduale, per evitare che questa conducesse a un’escalation del conflitto (e al collasso del potere del Cremlino, con conseguente caos e ulteriore aumento dell’influenza cinese nella regione). La cosa è servita a impedire che Vladimir Putin si prendesse l’Ucraina ma non ha fatto sì che gli ucraini riconquistassero il territorio occupato. La prospettiva ora è quella di uno stallo che potrebbe andare avanti mesi. Biden si trova quindi di fronte a una serie di dilemmi. Come ridefinire, appunto, la nozione di “successo” in Ucraina? Come convincere Volodymyr Zelensky e gli ucraini che quanto ottenuto è il massimo realizzabile? Come spiegare alla propria opinione pubblica che i miliardi spesi nella guerra in Ucraina non sono serviti a battere l’“autocrate” e “assassino” Putin e che anzi ora gli Stati Uniti si trovano in difficoltà a tenere a bada gli stessi tradizionali alleati europei?
Ancora più drammatiche, se possibile, le questioni che Biden si trova di fronte in tema di guerra a Gaza. Un articolo del Washington Post di qualche giorno fa ha raccontato divisioni e dissensi all’interno dell’amministrazione proprio di fronte alla strategia Usa in Medio Oriente. Sarebbero stati, in particolare, i funzionari più giovani e progressisti a mettere in discussione la linea ufficiale. Fin dall’inizio, quello che Biden e i suoi hanno fatto è seguire la politica tradizionale degli Stati Uniti nei confronti di Israele. Appoggio incondizionato a livello pubblico, possibilità di esprimere vedute differenti nel privato dei canali diplomatici. In altre parole, Biden pensava che l’abbraccio con cui ha salutato Netanyahu al suo arrivo a Tel Aviv dopo il 7 ottobre gli avesse garantito la possibilità di chiedere in privato moderazione nella guerra. Sappiamo com’è andata. Israele ha scatenato a Gaza una potenza di fuoco raramente vista nei conflitti degli ultimi decenni, uccidendo migliaia di persone e portando alla fuga disperata di oltre 1,7 milioni di civili.
La situazione non pare ora avere molte vie d’uscita. Il governo di Benjamin Netanyahu può dire sì a tregue più o meno lunghe, ma non deflette da quello che, anche per buona parte dell’opinione pubblica israeliana, è l’obiettivo finale: la cancellazione di Hamas. Ma la cancellazione di Hamas, e a Washington ne sono ben consapevoli, arriverà solo a prezzo di un’operazione militare ancora più distruttiva e sanguinosa. È un prezzo che Biden può, a livello interno e internazionale, pagare? La risposta è no. A livello interno i Democratici appaiono spaccati come non mai. Il numero dei morti civili ha portato buona parte di politici, funzionari, militanti ed elettori del partito – e non solo quelli più progressisti – a credere che sia venuto il momento di un profondo ripensamento. Bernie Sanders e Chris Murphy in Senato chiedono cessate il fuoco e protezione dei civili. Petizioni, sit-in, manifestazioni del popolo democratico si battono, un po’ ovunque, per la fine delle operazioni militari. A livello internazionale, intanto, gli Stati Uniti hanno subito un duro colpo alla loro credibilità. Certo, Biden e i suoi collaboratori possono sostenere di aver ottenuto il passaggio degli aiuti umanitari per Gaza e una tregua per la liberazione degli ostaggi. Ma la percezione di gran parte delle cancellerie e delle opinioni pubbliche internazionali è diversa. È che gli Stati Uniti sono corresponsabili, politicamente e moralmente, del massacro a Gaza.
Se questa è la fotografia di quanto accade, le soluzioni che l’amministrazione propone appaiono contraddittorie. Biden chiede a Israele moderazione nelle operazioni militari e “protezione dei civili”. Da Tel Aviv gli rispondono che non c’è moderazione possibile se l’obiettivo finale, come chiesto da Biden stesso, è la distruzione di Hamas. Biden chiede anche il prolungamento della tregua, fino a far tacere le armi. La risposta della destra israeliana, cui peraltro Biden si è legato mani piedi, è immediata: le tregue consentono a Hamas non solo di riorganizzarsi militarmente, ma di porsi anche come legittima controparte politica dei negoziati. Senza contare che lo stesso governo di destra israeliano appare del tutto indifferente rispetto ai tempi della guerra. Andrà avanti, sostanzialmente, per tutto il tempo necessario a eliminare il problema Hamas. Ma il fattore tempo è essenziale per Biden, che non può presentarsi in campagna elettorale con due conflitti in corso, soprattutto con due conflitti su cui la posizione americana appare così ondivaga, irrealistica, poco incisiva. A ben guardare, non sono alla fine semplici dilemmi quelli che Biden si trova ad affrontare in questi giorni. Ciò che il presidente UsaA contempla è piuttosto un paesaggio di debolezze e fallimenti che si allungano, sempre più minacciosamente, sul suo futuro politico.