di Michele Tamburrelli *
Sul salario minimo si è già scritto molto. Chi è contrario al provvedimento sostiene che il nostro Paese ha già un sistema di relazioni sindacali consolidato: la contrattazione collettiva, secondo il Cnel, copre più del 95% dei rapporti di lavoro. Ma che succede se i contratti collettivi non vengono rinnovati o lo sono con ritardi di parecchi anni? Come spiegare che il nostro sistema di relazioni sindacali non ha saputo contrastare una pesante posizione di arretramento negli ultimi 30 anni del nostro Paese, fanalino di coda tra quelli europei?
E che dire del segnale inequivocabile delle sentenze di Corte di Cassazione che hanno definito “non sufficiente a garantire un salario dignitoso” un contratto firmato da organizzazioni rappresentative?
Ma il salario è solo uno degli ingredienti del cosiddetto “lavoro povero”. Le statistiche Eurostat e Istat ci informano che nel nostro Paese circa l’11,5% della popolazione con un impiego vive in uno stato di povertà relativa, contro l’8,4% della media europea. Quindi, circa 3 milioni di persone, pur lavorando, fanno fatica o non riescono ad arrivare a fine mese!
Cosa determina un “lavoro povero”? Un salario, seppur dignitoso in valore assoluto, potrebbe non essere sufficiente se è l’unico reddito con cui sfamare più bocche in una famiglia numerosa. Un salario, seppur dignitoso quanto a paga oraria, può essere depotenziato se si lavora per poche ore alla settimana, al mese o in un anno. Il fenomeno del lavoro part time involontario è purtroppo molto più diffuso di quanto si pensi ed è particolarmente presente nei settori terziario e turismo. Questi rapporti di lavoro sono ricoperti prevalentemente dalle donne, che lo scelgono per poter conciliare i tempi di vita con quelli di lavoro, rimanendo spesso intrappolate in una spirale di bassi redditi e condizioni lavorative avverse.
Mi è capitato spesso nella mia carriera sindacale di incontrare lavoratori e soprattutto lavoratrici assunti con contratti part time di poche ore, a cui viene al contempo chiesto, a discrezione dell’azienda, di effettuare lavoro supplementare e a volte anche straordinario, spesso per coprire carenze di organico strutturali collocando l’orario di lavoro solo su specifiche esigenze unilaterali dell’azienda, in contrasto con la normativa sul part time. E così molte lavoratrici donne, spesso mamme, scelgono di rassegnare le proprie dimissioni in cerca di un lavoro con un orario per loro compatibile o si ritirano definitivamente dal mercato del lavoro.
Per venerdì 22 dicembre le organizzazioni sindacali di categoria del terziario Filcams, Fisascat e Uiltucs hanno proclamato uno sciopero motivato dal mancato rinnovo dei contratti. Questi contratti (terziario, distribuzione moderna organizzata, turismo, cooperazione), alcuni scaduti da diversi anni, riguardano circa 5 milioni di lavoratori e di lavoratrici che, come ricordato sopra, hanno ricevuto un doppio danno salariale dall’impatto dell’inflazione e dal mancato rinnovo puntuale dei contratti stessi.
Si tratta di contratti dove il lavoro femminile è importante se non addirittura prevalente e dove c’è una forte presenza di part time involontario. Sono contratti che operano in settori dove, inoltre, è stato sdoganato il lavoro h 24, 7 giorni su 7, dove lavoro domenicale e festivo mettono a dura prova la conciliazione dei tempi di vita e quelli di lavoro.
Salario e organizzazione del lavoro dovrebbero pertanto essere i punti cardine di un rinnovo dei contratti del terziario che dovrebbe avvenire in tempi rapidi per contrastare i problemi di mancata rivalutazione del salario e soprattutto per restituire autorevolezza alla contrattazione collettiva: non basta infatti sostenere che il contratto sia maggiormente rappresentativo se poi non produce gli effetti di una auspicata tutela del reddito e delle condizioni lavorative delle persone.
Non ho personalmente (e credo non esista) alcuna formula semplice per accelerare il rinnovo di questi contratti, spesso complicati da definire per le molteplici dinamiche e per la complessità dei fattori in gioco. A volte però è possibile lavorare su aspetti che producono un impatto simbolico e anche sostanziale importante. Per venire incontro alle esigenze delle lavoratrici madri, suggerirei, per esempio, di modificare l’antipatica norma contrattuale, presente almeno nei contratti del commercio e della grande distribuzione, che obbliga le lavoratrici che devono chiedere congedo parentale ad un preavviso di 15 giorni, anziché di 5 come la legge prevede (comma 3, art. 3 l. 81/2015).
Possibilmente anche mettere mano a quella norma contrattuale che rischia di essere tacciata di discriminazione e che impedisce alle lavoratrici madri con lavoro domenicale in contratto e con figli minori di 3 anni di potersi astenere dal lavoro domenicale. Più difficile, ma non impossibile, regolamentare il consolidamento del lavoro supplementare dei rapporti di lavoro part time e le condizioni di stabilizzazione dei contratti a termine.
Piccoli grandi segnali di attenzione, almeno sul lato della qualità di vita delle persone, che potrebbero facilitare il dialogo tra le parti sociali e testimoniare la vicinanza del sindacato alle persone che si vogliono rappresentare.
* Laureato in diritto del lavoro e relazioni industriale, mi sono occupato della materia fin dai miei primi esordi nel sindacato. Appassionato anche di formazione, ho diretto per diversi anni un ente di formazione