Usa e Cina tornano a parlare di riduzione delle emissioni di metano e rinnovabili, ma i piani sono poco chiari per quanto riguarda carbone ed altre fonti fossili. E sebbene già nel 2021, alla Cop 26, si è arrivati all’impegno di eliminare gradualmente il carbone, l’India vuole triplicarne la produzione. Più disponibili a trattare su questo fronte le nazioni del Golfo che, però, difendono i loro interessi nel settore petrolifero. Alla Cop 28 che inizia oggi a Dubai tra polemiche e conflitti di interesse, ogni Paese fa il suo gioco, complici anche il contesto internazionale difficile, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la guerra nel Caucaso e i conflitti in Medio Oriente. Un contesto nel quale a molti, Unione europea compresa, fa comodo portare avanti la bandiera delle rinnovabili per far digerire il boccone amaro di una eliminazione delle fonti fossili che non potrà che essere graduale. In alcuni casi, molto graduale. E con alcuni escamotage. Mosca conduce una partita tutta sua, perché tanto del suo gas (e del suo petrolio) hanno bisogno Cina, India e anche i Paesi emergenti. Che sia un intreccio complicato da sbrogliare non è certo una novità per una Conferenza delle parti sul clima. Il rischio è che questo contesto diventi terreno fertile per una nuova e più profonda rottura tra Occidente e Paesi del Sud del mondo, molti dei quali alle prese con i devastanti effetti dei cambiamenti climatici. Alla Cop 27 dello scorso anno questa rottura fu scongiurata dall’istituzione del fondo Loss and damage per le perdite e i danni provocati dai disastri causati dai cambiamenti climatici nei Paesi poveri. Ma ora tocca che diventi realtà.

Un bilancio (purtroppo) già noto – Ma quest’anno a Dubai c’è anche il primo Global stocktake (GST), bilancio periodico che l’Accordo di Parigi ha previsto dovesse essere programmato ogni cinque anni per fare il punto su quanto fatto nella lotta ai cambiamenti climatici e nella riduzione delle emissioni. Il Gst copre tutti gli aspetti dei negoziati, compresi i contributi determinati a livello nazionale (Ndc), la finanza per il clima, perdite e danni, energia, natura, adattamento. È più importante come leva per i prossimi anni, che come effettivo bilancio. Il rapporto tecnico della Convenzione Quadro dell’Onu sul Cambiamento Climatico (Unfccc), infatti, oltre a dire che le emissioni globali devono calare del 43% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019 (e del 60% nel 2035), spiega che se pure tutti gli Stati rispettassero gli impegni presi finora (almeno quelli a breve e medio termine), cosa nient’affatto scontata, la temperatura aumenterebbe comunque tra i 2,4 e i 2,6°C. Con la traiettoria attuale, spiega invece, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, si potrà arrivare tra i 2,5 e i 2,9°. Il Global Stocktake, però, sarà la base su cui preparare e adottare i nuovi piani nazionali (Nationally Determined Contributions – Ndc) da presentare entro il 2025, alla COP30 brasiliana di Belém. Il problema non è solo che quelli elaborati dagli Stati sono insufficienti, con tanto di bocciatura da parte dell’Unfccc, ma alla Cop28 nessuno dei grandi Stati dovrebbe apportare modifiche sostanziali. Si rimanda, dunque, al prossimo decennio, quando l’Ipcc spiega che la rotta va cambiata entro il 2030.

Mitigazione e combustibili fossili: i passi indietro che minacciano anche l’uscita graduale – Lo scorso anno alla Cop 27, una delle più schizofreniche di sempre, ottanta Paesi non sono riusciti a estendere l’impegno di una eliminazione graduale a tutti i combustibili fossili. Restava dunque quello ottenuto alla Cop 26 di Glasgow sull’eliminazione graduale del carbone. Come già anticipato in sede di pre-Cop da Arabia Saudita e altri Paesi, anche quest’anno non ci si aspetta di arrivare a un accordo sul phase-out dalle fonti fossili. L’Unione europea sostiene un accordo sull’eliminazione graduale dei combustibili fossili e sono favorevoli anche gli altri membri della coalizione High Ambition. Oltre all’Ue nel suo complesso, anche Danimarca, Cile, Spagna e Isole Marshall. Ma la partita è su quali combustibili fossili includere nella dichiarazione finale, perché Arabia Saudita, Russia, Iran e, in parte, anche Stati Uniti hanno molti interessi in gioco. L’inviato speciale cinese per il clima, Xie Zhenhua, ha dichiarato che “eliminare del tutto l’energia fossile non è realistico”, mentre un problema ancora più grande è quello dell’India che, già secondo produttore al mondo di carbone dopo la Cina, vuole triplicare arrivando a 100 milioni di tonnellate entro il 2030 per far fronte alla domanda di energia, interrompendo le importazioni già entro il 2026. Anche Australia e Polonia avranno di che discutere sul tema, mentre le pressioni da parte delle nazioni del Golfo, più disponibili a trattare sul carbone, saranno maggiormente concentrate sul petrolio, esattamente come i business delle loro compagnie.

La condizione (cattura e stoccaggio) e l’escamotage (rinnovabili) – L’unica strada, allora, per trovare un accordo sulla mitigazione che implichi anche un cambio di rotta (graduale) sui combustibili fossili sembra essere quello di concordare obiettivi percentuali di riduzione dell’offerta e della domanda di petrolio e gas. Sul tavolo c’è la proposta di alcuni Stati di puntare a una riduzione minima del 15% entro il 2030 e una riduzione del 65% entro il 2050, accompagnate da impegni per porre fine a nuove produzioni ed esplorazioni e ai sussidi, nota dolente anche in Italia. Anche a questa Cop, inoltre, le potenze che più emettono pretenderanno che questa ‘progressiva eliminazione’ riguardi i soli combustibili ‘unabated’. Si parla, dunque, dei soli impianti che non possono contare su tecnologie per abbattere le emissioni, come il Direct Air Capture (DAC) o il Carbon Capture & Storage (CCS). Anche se incluse persino nei percorsi di mitigazione previsti dall’Ipcc, nella sua posizione negoziale l’Ue ha riconosciuto che le tecnologie di cattura e stoccaggio devono essere utilizzate per ridurre le emissioni soprattutto nei settori difficili da decarbonizzare e non per ritardare l’azione per il clima in settori in cui sono disponibili alternative di mitigazione fattibili, efficaci ed efficienti in termini di costi, in particolare in questo decennio. Ma se il capitolo combustibili fossili divide, perché diversi sono gli interessi, mette tutti d’accordo – dagli Emirati Arabi all’India – l’obiettivo di triplicare le energie rinnovabili. Nuova Delhi ha già stipulato un accordo al G20, ma sono sessanta i Paesi che finora hanno aderito all’obiettivo. Secondo le ultime stime del think tank Ember, sono dodici i Paesi che nel 2023 stanno procedendo a un ritmo di installazione di impianti eolici e solari superiore del 40% rispetto alla media internazionale, compresi gli Stati Uniti. Solo che, sottolineano gli scienziati prima di ong e associazioni ambientaliste, la corsa alle rinnovabili non può sostituire l’addio alle fonti fossili.

Sulla Finanza (e il fondo Loss and damage) i Paesi ricchi si giocano la loro credibilità – Capitolo importante è quello della finanza. Intanto quella che riguarda il fondo 100 miliardi di dollari all’anno promesso nel 2009. Solo terminati i conteggi relativi al 2022, si potrà capire se l’obiettivo è stato raggiunto per la prima volta, ma comunque non sarà sufficiente e i Paesi poveri chiedono una maggiore trasparenza sulla gestione di quelle risorse. La grande scommessa è poi quella di rendere operativo il fondo Loss and demage. Dalla COP27 si sono svolte cinque riunioni del Comitato di transizione incaricato di formulare raccomandazioni alla COP28. Dopo le intense trattative di novembre, i paesi in via di sviluppo hanno accettato (o, almeno, sembra) che sia la Banca Mondiale ad amministrarlo per un periodo di quattro anni. Il fondo dovrebbe superare i 150 miliardi di dollari all’anno, ma per far fronte ai danni degli eventi estremi servono trilioni di dollari all’anno. Si prevedono discussioni molto accese sia sulla gestione del fondo, sia sul fatto che a pagare debbano essere solo i Paesi che storicamente hanno inquinato di più o se anche alcune economie emergenti, come Emirati Arabi e Arabia Saudita, tuttora classificati come paesi in via di sviluppo ai sensi della convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico del 1992, il trattato madre dell’accordo di Parigi. Diverse ong chiedono che il fondo venga pagato anche con tasse imposte alle compagnie fossili. Su questo fronte sono attesi impegni da parte dell’Ue, già preannunciati dal commissario europeo per il clima, Wopke Hoekstra, da Danimarca, Stati Uniti, ma anche Emirati Arabi.

X: @luisianagaita

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