di Federico La Mattina

Luciano Canfora, filologo e storico, ha recentemente pubblicato un breve libro sulla correlazione tra guerra e schiavitù nel mondo antico; è indicativo il sottotitolo del libro “il modo di produzione bellico” che riprende evidentemente una categoria marxiana: il legame guerra/schiavitù per l’autore si configura come un “modo di produzione” che caratterizzava a livello strutturale le società antiche.

Canfora considera il “basamento schiavistico” la struttura fondamentale di tali società e mette in luce la durevolezza del nesso guerra/schiavitù che non si limita peraltro al mondo antico. Il nesso guerra/schiavi è dunque al centro delle società schiavistiche e la guerra, in quanto rapina, “era il volano di queste società”.

Canfora critica l’approccio storiografico che tende a ridimensionare eccessivamente i numeri che le fonti antiche riportano in merito alla schiavitù; nel testo vengono citati passi di vari autori antichi quali Tucidide – che fa riferimento alla vendita o alla fuga di schiavi come conseguenza di eventi bellici – e Senofonte. Un frammento di Iperide, oratore e politico ateniese del IV secolo, riporta l’affrancamento di 150.000 schiavi come conseguenza della vittoria di Filippo il Macedone contro l’esercito panellenico. Un’altra fonte antica che riporta una cifra ‘alta” è Ateneo nei Deipnosofisti: un censimento in Attica del 316 riporta la cifra di 400.000 schiavi. Le ricorrenti fughe di schiavi durante i periodi bellici rappresentavano un duro colpo sia per Atene che per Sparta e, dal punto di vista dello schiavo «conta poco la differenza tra le varie tipologie di dipendenza o tra i vari regimi vigenti tra i “liberi”» tant’è che nel trattato spartano-ateniese del 423-422 era presente una clausola riguardante il reciproco impegno a “non accogliere schiavi fuggitivi”.

L’autore analizza in modo puntuale l’intrecciarsi di diverse tipologie di conflitto all’interno del mondo greco: nei conflitti interni furono spesso coinvolte le potenze del tempo, con approcci a volte ideologici a volte pragmatici. D’altra, parte all’interno delle comunità politiche, i liberi, che erano accomunati nel contrasto alle sedizioni schiavili, si scontrarono duramente sul piano dell’organizzazione politica e tale conflitto poteva facilmente sfociare in guerra civile, in particolare in concomitanza di fattori esterni quali la guerra.

In riferimento al mondo romano, l’autore parla di “gigantismo egemonico” con importanti conseguenze nell’enorme approvvigionamento di manodopera schiavile: ad esempio la sconfitta dello stato epirota portò ad “almeno 150.000 deportati come schiavi in Italia”. L’‘assalto al mondo’ di Roma alimentava il rifornimento di ‘lebendiges Eigentum’, “merce vivente”, secondo la definizione di Theodor Mommsen. La concentrazione di tale merce vivente comportava il conseguente rischio di ribellioni e il fenomeno delle “guerre contro gli schiavi” impegnò e dissanguò seriamente le legioni romane: Ateneo nei Deipnosofisti riporta la cifra di più di un milione di schiavi morti nelle numerose rivolte.

Canfora ritiene fondamentale chiedersi quali siano state le spinte all’espansionismo politico-militare romano e sarebbe riduttivo limitarsi alla constatazione di uno “spirito di conquista”. L’autore mette quindi in rilievo le ragioni strutturali che hanno messo in moto l’espansionismo imperialistico romano: ad esempio l’imperatore Traiano con le sue conquiste si impegnò sostanzialmente a rivitalizzare le principali fonti di approvvigionamento dell’impero romano: oro e schiavi.

Il “modo di produzione bellico” risulta quindi il vero motore delle società schiavistiche, quali che fossero le loro tipologie. Il testo di Canfora ci sprona indirettamente a riflettere sul mondo a noi contemporaneo in cui permangono e si rinnovano forme di sfruttamento e perfino di schiavitù.

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