di Chiara Charles

Oggi inizia la 28esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, conosciuta come COP, a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Saranno 12 giorni di trattative per elaborare una risposta alla crisi climatica, sempre più urgente. Quella di quest’anno è una COP si svolge nell’anno più caldo mai registrato ed è più controversa che mai. Gli Emirati Arabi Uniti sono infatti uno dei paesi maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra pro capite all’anno e uno dei maggiori produttori di petrolio. È inoltre stato nominato a capo della COP 28 il sultano al-Jaber, il CEO della compagnia petrolifera nazionale.

La presidenza ha pubblicato i quattro obiettivi che costituiranno i punti chiave dei dibattiti: una transizione energetica rapida ed equa, i finanziamenti per un’azione climatica, la centralità di natura e persone nell’azione per il clima, e l’inclusione. Un punto centrale del summit è il bilancio dei progressi fatti verso gli obiettivi degli accordi di Parigi e la successiva elaborazione di un piano d’azione per avvicinarci al traguardo del “net zero”, nessuna emissione entro il 2050.

Nonostante le innumerevoli discussioni su cosa fare per proteggere il nostro ambiente e difendere il nostro ecosistema, le risposte sono chiare: abbiamo bisogno di definire un piano globale, scadenzato e obbligatorio per gestire l’eliminazione graduale dei combustibili fossili e aumentare l’uso dell’energia rinnovabile per continuare a rispondere al fabbisogno energetico globale, che secondo le stime aumenterà nei prossimi anni.

Questo cambio di rotta richiederà risorse. Per questo, come la stessa presidenza della COP ha dichiarato, è altrettanto necessario che vengano rispettati gli accordi finanziari presi in passato. Ritengo fondamentale che i leader mondiali rispettino l’impegno preso alla COP26 di Glasgow di raddoppiare i finanziamenti per l’adattamento entro il 2025, così come di investire 100 miliardi di dollari promessi in finanziamenti per il clima all’anno entro lo stesso anno, insieme ai fondi non versati precedentemente. E, aggiungerei, è importante che ne vengano aumentati la portata, il raggio d’azione e l’ambizione.

L’innalzamento del livello del mare e l’erosione del suolo stanno rendendo questi territori inabitabili e le conseguenze a lungo termine hanno un impatto a livello globale e i loro costi sociali sono inquantificabili. Secondo un recente studio di ONE, i cambiamenti climatici costano all’Africa fino a 15 miliardi di dollari all’anno. Si tratta di una cifra superiore ai singoli PIL di 26 Paesi africani. Entro il 2050, il costo potrebbe essere di 50 miliardi di dollari.

I Paesi ad alto reddito – storicamente i maggiori emettitori di carbonio al mondo – stanno facendo troppo poco per aiutare i Paesi vulnerabili al clima a prepararsi a condizioni sempre più avverse. Come se non bastasse, questi Paesi ad alto reddito rendono incredibilmente difficile tracciare con precisione quanto contribuiscono effettivamente e dove viene speso. Questo perché la rendicontazione è stata confusa, lenta e imprecisa. Di conseguenza, nessuno sa con certezza quanto denaro sia stato promesso e tanto meno erogato.

Quello che però emerge è una sovrastima degli impegni di finanziamento per il clima da parte dei Paesi donatori e delle istituzioni internazionali. Basti pensare che due terzi di questi fondi conteggiati dall’OCSE non sono mai stati dichiarati come erogati o poco avevano a che fare con l’adattamento climatico: si tratta di ben 400 miliardi di dollari tra il 2013 e il 2021.

Una risposta pratica ed efficace a questi problemi deve essere uno degli obiettivi principali in una COP, in cui l’inclusione è stata individuata come un altro degli obiettivi principali. Perché esso possa essere rispettato ci deve essere un dialogo inclusivo e multilaterale, che porti a soluzioni condivise e in grado di rispondere ai bisogni di tutti i paesi coinvolti.

Gli Emirati Arabi Uniti e la sua presidenza non costituiscono un panorama promettente. Come giovane attivista mi chiedo come un paese in cui la libertà di espressione non è rispettata, con un’economia dipendente dall’estrazione del fossile, possa promuovere un dialogo inclusivo per una transizione verde. L’obiettivo di queste trattative è però chiaro: evitare una completa deriva e arginarne le conseguenze della crisi climatica. Per questo, è assolutamente necessario che i Paesi ad alto reddito rispondano all’urgenza che questa crisi richiede, facendo fronte alle proprie responsabilità e agli accordi stipulati, agendo congiuntamente per proteggere il pianeta e le comunità che lo abitano.

È altrettanto chiara l’esigenza di un rinnovamento della struttura delle risposte alla crisi climatica, perché esse non siano più intrise di razzismo sistemico dove i pochi ricchi decidano per i molti con poche risorse e in prima linea ad affrontare quest’emergenza. È necessario che si ascolti e si risponda alle necessità dei paesi più vulnerabili, elaborate attraverso il dialogo, la collaborazione e la condivisione di risorse.

Inclusione, equità e risorse devono essere le parole chiave dei dibattiti dei prossimi giorni. In un clima di cooperazione, si deve arrivare all’elaborazione di soluzioni congiunte ed efficaci per rispondere alla crisi climatica i cui costi, materiali e sociali, sono sempre più evidenti. L’impegno non si deve però limitare a questi dodici giorni. Il rispetto degli accordi che saranno stipulati è essenziale, per evitare che l’obiettivo della prossima COP sia quello di rimediare alle conseguenze di impegni non mantenuti.

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