Se su un fondo che i Paesi poveri aspettano da trent’anni l’accordo arriva al primo giorno di Conferenza delle Parti sul clima, ma non spazza via dubbi, incertezze e scetticismo, una ragione deve pur esserci. In questo caso, più di una. Alla Cop 28, infatti, è stato raggiunto un accordo per rendere operativo il cosiddetto fondo “Loss&damage“, per risarcire i Paesi più poveri e vulnerabili del mondo per le perdite e i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Una grande vittoria certamente per gli Emirati Arabi, che ospitano la Cop disertata dai presidenti di Stati Uniti e Cina, Joe Biden e Xi Jinping. È la prima volta nella storia che, nero su bianco, si riconosce che alcuni Paesi abbiano diritto a un risarcimento per i danni causati dalle politiche di quelli più ricchi. Tra i primi impegni, quello degli Emirati arabi uniti che hanno risposto alle pressioni internazionali di contribuire (anche se sulla carta restano Paesi in via di Sviluppo, ndr) con 100 milioni di dollari. Altri 100 arriveranno dalla Germania, 60 milioni di sterline dalla Gran Bretagna (40 per il fondo e 20 in accordi di finanziamento), 17 dagli Stati Uniti e 10 dal Giappone. Altri dovrebbero arrivare nei prossimi giorni, tanto che pare che già nella prima giornata di Cop in ambito Ue ci fosse la disponibilità di contributi per almeno altri 125 milioni, oltre ai cento di Berlino. Ma si parla di somme non ufficiali e suscettibili di modifiche. Inevitabile che la decisione fosse accolta, se non altro per quello che rappresenta, con una standing ovation dai delegati dei 195 Paesi partecipanti alla Cop. Ma alcuni impegni sono effettivamente minimi, soprattutto in proporzione al grande contributo offerto invece alle emissioni globali. E non è detto che la struttura di questo fondo, così come è concepita ora, possa davvero rappresentare una vittoria anche per i Paesi che di quelle risorse hanno un bisogno urgente e disperato, ossia i piccoli Stati insulari.
Il fondo Loss&damage arriva subito, ma i conti non tornano – Dopo decenni di richieste, del fondo si era ampiamente discusso per la prima volta – anche alla luce dei disastri climatici sempre più incalzanti – alla Cop 26 di Glasgow, ma la decisione di istituirlo era stata presa lo scorso anno, alla Cop 27 di Sharm el-Sheikh. Già da qualche anno è chiaro a tutti che la cifra immaginata, ossia 100 miliardi di dollari all’anno, da aggiungere ai fondi destinati a mitigazione e adattamento (altri 100 miliardi all’anno dal 2020 al 2025), non sarebbero stati sufficienti. L’accordo raggiunto non supera il dilemma: è stato concordato che al fondo dovranno arrivare almeno 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, ma i Paesi in via di sviluppo stimano che servono quasi 400 miliardi di dollari all’anno. D’altro canto, l’ultimo rapporto Unep cita uno studio recente secondo cui le 55 economie più vulnerabili già subito perdite e danni per più di 500 miliardi di dollari negli ultimi vent’anni. Secondo uno studio pubblicato questa settimana dall’Università del Delaware, le perdite e i danni derivanti dal cambiamento climatico costeranno circa 1,5 miliardi di dollari nel 2022. I paesi del Sud del mondo hanno perso in media l’8,3% del Pil. A questo riguardo c’è chi ha definito imbarazzante l’impegno assunto da Stati Uniti e Regno Unito.
Ancora una volta impegni “volontari” – Un altro problema è rappresentato dalla struttura stessa del finanziamento. Che non c’è. I versamenti saranno “volontari”, caratteristica che negli accordi presi alle Cop non ha quasi mai portato a nulla di buono. Certamente ha rallentato molti processi. Eppure dalla Cop 27 a oggi il nodo non è stato sciolto: i Paesi sviluppati sono “invitati”, ma non “vincolati” a contribuire al fondo. Di conseguenza non c’è neppure un obbligo di contributo. Tutti i paesi in via di sviluppo e quelli vulnerabili hanno diritto ad accedere direttamente alle risorse del Fondo, con una percentuale minima di assegnazione per i paesi meno sviluppati e i piccoli stati insulari.
La gestione della Banca Mondiale – E poi c’è il tema della gestione. Sarà la Banca mondiale ad amministrare per quattro anni il fondo, che dovrebbe essere avviato nel 2024. Una condizione che i Paesi in via di sviluppo hanno dovuto accettare, nonostante le tante riserve. Perché gli Stati Uniti e altre grandi potenze hanno un certo controllo sulla Banca mondiale che, per avviare il fondo, ha richiesto un minimo di 200 milioni di dollari. E per il timore che la storia si ripeta. Sintetizzano bene quale è il problema le parole di Mohamed Adow, direttore di Power Shift Africa: “Abbiamo bisogno di nuovo denaro, sotto forma di sovvenzioni, non di prestiti, altrimenti non farà altro che accumulare ulteriore debito su alcuni dei paesi più poveri del mondo, vanificando lo scopo di un fondo progettato per migliorare la vita”. Dunque sovvenzioni (ma nel testo sono previsti anche prestiti agevolati e altri strumenti finanziari) e, naturalmente, trasparenza. Non proprio ciò che è accaduto finora con i finanziamenti arrivati nei decenni ai Paesi poveri del Sud del Mondo. Durante l’incontro semestrale degli Stati membri europei, il presidente della Banca mondiale, Ajay Banga, ha affermato di essere consapevole della necessità di includere una buona rappresentanza dei paesi del G77 nel consiglio di amministrazione del fondo. Che, comunque, avrà una segreteria indipendente con un consiglio di amministrazione composto da membri del comitato di transizione. “Il lavoro è lungi dall’essere finito” ha commentato Pa’olelei Luteru, presidente dell’Alleanza per i piccoli stati insulari (Aosis) che rappresenta gli interessi di 39 piccole isole e stati costieri in via di sviluppo. “Non potremo riposarci – ha detto – fino a che il fondo non sarà adeguatamente finanziato”.