È incredibile che un drammaturgo come il tedesco Christian Petzold all’uscita di ogni suo film riceva dal pubblico italiano un’attenzione distratta e distante, come fosse di quegli oggetti sperimentali noiosi da scansare come la peste. Ebbene se avete un po’ di coraggio, e se la finite nel rivedere continuamente lo stesso film da due mesi, in sala dal 30 novembre – dopo l’apertura del 41esimo Torino Film Festival – esce Il cielo brucia. Non vi piace il titolo? La sinestesia è una figura retorica incomprensibile? Eppure c’è poco da fare per Felix, Leon, Nadja (Paula Beer) e Devid. Perché attorno alla casa delle vacanze immersa nella foresta ma a due passi dalle spiagge tedesche del mar Baltico, dove i quattro ragazzi si incontrano in torrida estate, le fiamme degli incendi lentamente si avvicinano (ebbene non solo in Sardegna ma anche nella gloriosa Germania vanno in fumo ettari di bosco…).
Giunti fortunosamente alla casa, dopo essersi perduti tra gli alti alberi e con l’auto in panne, Felix e Leon scoprono che mezza magione è già occupata da Nadja, studentessa ma cameriera stagionale nel vicino paese e dall’aitante bagnino Devid che, viste le grida di piacere notturno dei due, sembra andare molto d’accordo con la ragazza. L’atletico e saettante Felix è lì per sistemare il portfolio da presentare per l’ammissione all’accademia d’arte, mentre il più rotondetto e stiloso Leon cerca un po’ di pace per concludere il suo romanzo. Nulla è regolare e prevedibile nel quartetto di protagonisti. Nuovi amori si materializzano all’improvviso, come sbucano nuovi conflitti e imprevisti. L’arrivo dell’agente letterario di Leon aiuterà a capire che dietro l’apparente leggerezza di Nadja c’è un’esperta di letteratura e di anime di livello altissimo, che Leon vive di inconcludenti tentativi di scrittura, e che Devid e Felix sembrano amarsi davvero.
Il cielo brucia ha una quantità infinita di pregi e francamente proprio nessun difetto. Scritto con aggraziata compattezza da Petzold, il testo mescola l’elemento naturale del fuoco con pulsioni e passioni degli esseri umani, in primis quel senso di gelosia e di possesso che intercorre nei rapporti interpersonali sia sentimentali che semplicemente amicali. Non solo il cielo, ma anche l’anima brucia in Leon e Nadja, come in Felix e Devid. E la regia di Petzold è lì a circoscrivere con squadra e righello, nemmeno fosse un maestro del thriller, i bordi del quadro umano entro cui labilità e fragilità interiori si sviluppano. L’incendio della foresta, sinistro e insinuante, chiaramente presente in fuggevoli impressioni tra i protagonisti, non è mai turning point deflagrante. E qui sta la grande abilità del regista tedesco oramai 63enne – ce lo ricordavamo negli anni di Jericow e Yella a Berlino vent’anni fa: far incombere il realismo inarrestabile della natura tenendolo continuamente e metaforicamente sottotraccia.
L’accerchiamento è qualcosa che la regia di Petzold costruisce senza che ne accorgiamo: utilizzando attori estremamente capaci più in funzione di pedine, rendendo lo spazio di quel giardinetto davanti casa e già dentro la foresta come sempre più diviso dal mondo. Perché in fondo c’è una lezione da grande drammaturgo a sorreggere e penetrare Il cielo brucia: per poter scrivere una storia e descrivere la realtà bisogna essere capaci di guardarsi attorno e non di atteggiarsi da narratori per grazia ricevuta o status sociale. Fate voi, insomma. Noi che questo film va visto assolutamente ve lo abbiamo spiegato. Distribuisce come al solito modello sfida impossibile Wanted. Il cielo brucia ha vinto l’Orso d’argento a Berlino 2023.