C’era chi prendeva il sole e chi pregava, qualcuno si era perfino costruito un bilanciere per allenarsi. Ogni giorno un operaio fingeva una telefonata ai superiori per insultarli. Tutti erano accomunati dallo stesso destino: esiliati in un edificio fatiscente, controllati quasi a vista da due guardie, deprivati della propria dignità di lavoratori fino al momento in cui non avessero accettato un sostanziale e sostanzioso demansionamento. In settanta finirono in quella sorta di lager tra le ciminiere dell’Ilva di Taranto. Palazzina Laf, si chiamava. Gli uomini della famiglia Riva la trasformarono in un confino per i dipendenti ficcanaso o troppo professionalizzati.
La loro storia rimasta a lungo chiusa in quelle quattro mura, quindi finita in un’aula di tribunale e presto dimenticata nonostante resti la prima vicenda riconosciuta come mobbing in Italia, è stata portata sul grande schermo da Michele Riondino, attore tarantino alla sua prima opera da regista. Per il suo esordio dietro la macchina da presa ha scelto un film di denuncia – come quello di Paola Cortellesi e chissà se altrettanto fortunato – e ha deciso di giocare in casa, continuando anche a recitare. È lui a interpretare il ruolo del protagonista vestendo i panni di Caterino La Manna, un ingenuo operaio infiltrato nella Palazzina Laf dal capo del personale dell’Ilva, Giancarlo Basile, un cattivissimo Elio Germano, per controllare gli esiliati e anticiparne i tentativi di ribellione.
Così, sullo sfondo una Taranto al solito bella e maledetta, va in scena un film amaro, a metà tra commedia e tragedia, che racconta l’origine di tutti i mali dell’Ilva e della città: il signoraggio preteso dai padroni della fabbrica e l’apocalisse che attende gli ingenui, felici di vedere la vita migliorare di quel tanto che basta alla loro semplicità – una qualifica di caposquadra, una Panda malconcia – mentre si svendono i diritti precipitando, calpestio dopo calpestio, verso il baratro odierno dell’acciaieria. Attorno alle figure, in contemporanea socie e antagoniste, del consapevole “boss” Basile e dell’inconsapevole spia La Manna, un tragico e splendido Fantozzi 2.0, si dipana la storia beffarda dei 70 impiegati, alienati dentro la Palazzina Laf eppure visti come lavoratori fortunati dagli operai che ogni giorno sudano nei reparti più caldi dell’Ilva. Essere pagati per fare niente, sai che paradiso.
Una patina di privilegio dietro la quale si nasconde un inferno psicologico, invisibile a chi non vi finisce dentro. Ed è con questo gioco di specchi che Basile convince La Manna, vittima e allo stesso tempo carnefice, a essere i suoi occhi e le sue orecchie in cambio di una promozione che gli permetterà di lasciare la sua scalcinata masseria a pochi chilometri dall’Ilva e trasferirsi nella periferia della città, ancora all’ombra degli altoforni, sempre sotto la cappa della fabbrica che molto dà e tanto toglie. Sarà l’inizio di un’apocalisse che lo porterà dritto in quella specie di manicomio, un Overlook Hotel operaio, nel quale in decine – tra loro una bravissima Vanessa Scalera – vivevano come “ebeti”, stabilirono i giudici condannando Emilio Riva e i suoi collaboratori a 2 anni di carcere.
Nella Palazzina Laf, scrissero, “si era soliti assistere a evidenti manifestazioni di disagio come di chi, arrivata una certa ora del pomeriggio, urlava a squarciagola, di chi passeggiava avanti e indietro a contare i mattoni per terra o i buchi nei muri, di chi sbatteva le sedie per terra o tirava calci alle pareti, di chi faceva ginnastica, giocava a carte o dormiva, di chi fissava le tapparelle o le finestre rotte”. Un “purgatorio a tempo indeterminato”, lo chiamarono i pubblici ministeri che liberarono i veri confinati, con il quale il padrone ribadiva il suo diktat: “Ti pago e quindi posso fare sostanzialmente di te quello che voglio”. Ventidue anni dopo la sentenza definitiva, l’attivista-attore-regista Riondino ci ricorda nel suo dramma molto politico questa storia di sopraffazione e ricatto che, alla Elio Petri, darà fastidio a destra e a sinistra perché parla alla classe operaia. E mica solo di Taranto.