Cinema

Dal passato comunista al cemento globalista, Bellomo racconta l’Albania che si trasforma nel viaggio documentario impolverato Anulloje Ligjin

L'ultimo lavoro del pugliese Fabrizio Bellomo è in Concorso al 41esimo Torino Film Festival. Là dove riuscì la magniloquenza razionalista dell’architettura fascista, dove non riuscì del tutto il comunismo versione Enver Hoxha (che di costruzioni fasciste ne mantenne diverse), ora sta facendo tabula rasa il globalismo cementificato “green” con i suoi grattacieli

di Davide Turrini

Santa miseria. Tirana oggi sembra Milano, anzi Abu Dhabi. Scontate le news da pacchetto estivo, come le vacanze in Albania, o l’ideuzza dell’hub migranti italiano oltre Adriatico di meloniana memoria, Fabrizio Bellomo con il documentario Anulloje Ligjin – in Concorso al 41esimo Torino Film Festival – prova a raccontare attraverso l’impressione delle immagini una trasformazione epocale e antropologica: quella dell’uomo che ridisegna l’urbe e fa a pugni con la sua storia.

È buffo, e quasi scontato, che l’enorme murales modello Il quarto stato di Pelizza da Volpedo in Piazza Scanderbeg a Tirana sia impachettato per un restauro con la carta delle migliori occasioni della modernità di colore blu con stelline timbrata Europa. In mezzo all’osservazione di Bellomo, coadiuvato da un'”armata Brancaleone” assieme al regista Luan che gli fa da guida, come una diagonale disomogenea ma profonda, emerge l’epoca di passaggio della deposizione dei simboli, quindi delle statue di Hoxha e Stalin, della sostituzione di segni e valori oggi diventati commercializzazione di brand identici in ogni angolo della terra.

Lo sfondo in Anulloje Ligjin (tradotto: annulla la legge) diventa primo piano, la scenografia sopravanza dialoghi e narrazione. L’Albania è un set da esplorare, un luogo neorealista senza filtri preproduttivi in cui proprio dallo spazio osservato si slanciano contraddizioni politiche. Perché Anulloje Ligjin ad un certo punto prende una direzione curiosa. Bellomo, spesso in campo di spalle, giunge a Scutari e ricostruisce attraverso testimonianze locali, tra cui una dei due scultori che operarono negli anni ottanta, l’andirivieni attorno all’enorme statua in ferro che fino ai primi anni novanta rimase collocata nella piazza centrale della città: quella dei Cinque eroi di Vig. Cinque partigiani che persero eroicamente la vita nell’agosto 1944 combattendo contro i nazisti.

Simbologia dalle proporzioni materiche evidenti, divenuta stalinista obtorto collo, elevata a potenza, smantellata e vilipesa (con tanto di cerchione lanciato al collo di una statua partigiano mentre crollava il comunismo), parcheggiata in un angolo di periferia, saccheggiata e scheggiata per il ferro, di nuovo ricollocata al centro di una rotonda trafficata fuori città. Bellomo la insegue con una flemma investigativa ammaliante, recupera stralci d’archivio con questa statua (si può dire? Bella) che gira stretta a dei cavi, issata su camion, infine ne disegna con le dita la sagoma assieme alla guida nella polvere del lunotto posteriore della propria auto oramai mimetizzata con le strade albanesi.

“Prima dell’inizio del viaggio vi è stato un lungo periodo di ricerca sul materiale d’archivio relativo alle statue e ai monumenti del Realismo Socialista”, spiega Bellomo nelle note di regia sottolineando che il flusso di immagini d’archivio non si è mai concluso nemmeno finite le riprese. “I nuovi materiali selezionati sono quindi andati a stratificare ulteriormente e a calcificarsi sul lavoro già svolto e acquisito. D’altronde un film che attraversa il periodo di transizione albanese e che dal mio punto di vista – come allegoria – può valere universalmente per qualsiasi periodo di transizione di qualsiasi luogo, persona o altro, non poteva che nutrirsi di stratificazioni. E caos”.

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