Il Pd chiama in causa la presidente del Consiglio sulla crisi dell’Ilva. “Adesso tocca a Giorgia Meloni chiarire qual è la strategia”. Lo fa per bocca di Francesco Boccia, presidente dei senatori dem, e con un’interrogazione presentata a Palazzo Madama, primo firmatario Andrea Martella, indirizzata alla stessa premier sullo stato comatoso di Acciaierie d’Italia: “Abbiamo chiesto come intendano salvaguardare gli stabilimenti, se la strada è quella di convertire i 680 milioni di euro del prestito obbligazionario, prendendosi la maggioranza – spiega l’ex ministro – o procedere con il memorandum firmato direttamente dal ministro Raffaele Fitto con ArcelorMittal, nonché se c’è assenso dell’Ue. Allo stato, tutte le promesse fatte sull’acciaieria di Taranto in un anno di governo si sono vanificate”. E il tempo per salvare il futuro degli stabilimenti scarseggia. Il 6 dicembre è stata convocata una nuova assemblea per tentare un’intesa in extremis tra Invitalia, socio pubblico di minoranza, e Mittal che controlla il 62% di Acciaierie d’Italia.
Senatore, il punto di partenza è che Mittal non ha intenzione di partecipare all’aumento di capitale necessario per garantire la sopravvivenza dell’ex Ilva.
È l’ennesima dimostrazione di Mittal della volontà di tenerla con i motori al minimo, nonostante l’aiuto ricevuto dallo Stato. Il ministro Fitto, con quel memorandum che resta ancora misterioso, ha promesso altri soldi pubblici gestiti da privati. Perché Mittal deve gestire queste risorse? Intanto il governo non ha detto una parola chiara sull’ipotesi di far salire Invitalia al 60 per cento. Da qui l’interrogazione. E nella legge di Bilancio abbiamo depositato diversi emendamenti che ipotizzano anche il superamento della gestione di ArcelorMittal con il ritorno dell’azienda sotto il controllo pubblico in attesa di nuovi investitori.
Quindi qual è la soluzione secondo il Pd, allo stato?
La strategia di Fitto pro Mittal è opaca e fallimentare e, allo stesso tempo, i ministri Urso e Giorgetti, nei diversi atti di sindacato ispettivo alla Camera fatti dal nostro deputato di Taranto, Ubaldo Pagano, hanno mostrato freddezza e, oggi, anche loro hanno il dovere di fare chiarezza: condividono o meno la nazionalizzazione dell’azienda? Se il socio di maggioranza non ha alcuna intenzione di investire, perché tenerlo dentro Acciaierie d’Italia? Intanto il governo è riuscito anche a cancellare il miliardo previsto per l’ex Ilva nel Pnrr che avrebbe consentito di decarbonizzare. Noi ci allineiamo alla posizione di Invitalia e alle contestazioni contenute nella lettera dell’ad Bernardo Mattarella inviata ad ArcelorMittal lo scorso 23 ottobre. Come fa la presidente del Consiglio a dare credito a chi non informa il socio pubblico, controllato dal ministero dell’Economia, sui flussi di cassa a 12 mesi e i piani di produzione? Parliamo di temi che meritano anche l’attenzione della Corte dei Conti sull’utilizzo delle risorse pubbliche.
C’è già chi adombra lo spettro dell’amministrazione straordinaria.
È una strada che, a questo punto, non va assolutamente esclusa. Ovviamente andrebbero stanziati i fondi per garantire le società dell’indotto, che già oggi vantano crediti milionari. Ma almeno, in quello scenario, ci sarebbe la garanzia dello Stato. Oggi invece è tutto filtrato dal management di ArcelorMittal che, con discrezionalità, decide quando e come si paga. Se lo Stato deve metterci i soldi e altri devono gestirli, tanto vale che prenda il controllo dell’azienda: è su questo che chiediamo risposte al governo. Lo Stato ha gli strumenti per tutelare l’occupazione e un’azienda che ha una finalità strategica. A quel punto potrebbe far tornare in gioco partner industriali che coincidono con l’interesse nazionale.
Più volte lei ha parlato di un “disegno di Mittal”. Su che basi?
È cronaca. Acciaierie d’Italia dovrebbe avere debiti per oltre 2 miliardi di euro verso società infragruppo. Ancora oggi non sappiamo a quanto acquista le materie prime e i semilavorati e con quali margini di contribuzione rivende i prodotti finali. Il timore, lo ripeto nuovamente, è che l’operazione sia nata più per bloccare quote di mercato dell’ex Ilva che per investire nella produzione di acciaio in Italia. Il sospetto originario è questo e perciò i dem pugliesi sono sempre stati dubbiosi sull’operazione Mittal. Il complesso industriale italiano, fatto da Taranto, Genova, Novi Ligure e da tutto il resto, è stato dato a una multinazionale che aveva decine di stabilimenti in Europa, altra cosa sarebbe stata fare dell’ex Ilva la principale base operativa in Europa di un gruppo con inequivocabili radici italiane. È da quella scelta che si origina la situazione attuale, mentre Mittal fa utili nel mondo e distribuisce dividendi.
ArcelorMittal ha sempre detto che i problemi sono iniziati quando è stato tolto lo scudo penale.
Una menzogna. Oggi di fatto c’è di nuovo un mini-scudo, datato gennaio 2023. Ma da quel momento Mittal non ha ripreso a investire. Sono solo alibi. Ci sono stati anni d’oro per il mercato dell’acciaio, Mittal ha fatto margini ovunque mentre l’ex Ilva ha fatto debiti verso il gruppo Mittal. Mi sembra un po’ troppo, anche per i più ingenui.
Se si guarda indietro, è difficile non dire che errori sono stati compiuti anche da governi di centrosinistra.
Indubbio, a iniziare dalla vendita a Mittal che parte sotto un governo di centrosinistra (il bando porta la firma di Federica Guidi, la vendita fu poi perfezionata da Carlo Calenda, nda) e si chiude con il governo gialloverde nel 2018. Esistono differenze nel rapporto con Taranto che non vanno mai dimenticate. Quando tra il 2006 e il 2007 tutti erano alla corte dei Riva, ero commissario liquidatore di Taranto. Mandammo una lettera per chiedere ai Riva di pagare l’allora Ici su tutti i terreni occupati dagli stabilimenti, non solo una frazione. Mi criticarono aspramente. Mi dicevano che i Riva facevano del bene a Taranto. Invece inquinavano. Errori ne sono stati commessi, ma la destra, mi dispiace ribadirlo, è stata sempre dalla stessa parte, quella di chi gestiva l’azienda, inquinando e spesso con il sostegno dello Stato. Poi ci sono state persone come il presidente della Puglia Michele Emiliano, che si è speso più di chiunque, anche contro governi dello stesso colore politico per difendere un principio sacrosanto: il diritto alla salute e il rispetto dell’ambiente vengono prima di qualsiasi altro diritto.
E il diritto al lavoro?
Se può essere compromesso, è il caso in cui è dovere assoluto dello Stato intervenire. Senza salute non c’è lavoro. Aver teorizzato che potesse esserci una parità tra i due è stato un errore. Nella società di oggi salute e ambiente vengono prima di qualsiasi altro diritto. E quando il mercato non accetta questa supremazia perché non tornano i conti, allora serve senza se e senza ma l’intervento dello Stato. L’appello che faccio a Fitto, da pugliese a pugliese, è quello di giocare tutti dalla stessa parte, quella di Taranto, della salute e dell’ambiente. Mittal ci ha portato su una strada sbagliata. Ora tocca al governo Meloni decidere da che parte stare.