Disorientata, immobile, marginale. Non sono davvero begli aggettivi e purtroppo si possono tutti, a buona ragione, accostare oggi all’Europa. Quando l’Unione europea, come noi la conosciamo, iniziò a prendere forma, uno dei suoi padri fondatori, Jacques Delors, disse che era “partita su una gamba sola, quella monetaria”. Da allora l’Ue ha continuato a saltellare, afferrando qualche stampella, ma senza mai sviluppare il suo secondo arto. Per un po’ è andata, tutto sommato, bene. Per un decennio la storia è parsa davvero essere finita, con un mondo che sembrava ormai tendere quasi all’unisono verso lo sviluppo di commerci ed economie. Dopo il 1989 la Russia viene inserita nell’economia capitalistica, nel 2001 la Cina entra nell’organizzazione mondiale del commercio (Wto). Alla fine non è andata come sembrava dovesse andare ma in quella fase di relativa quiete l’inconsistenza politica europea si è fatta sentire di meno.
Viceversa, negli ultimi tempi, la tara originaria dell’Unione è tornata a palesarsi in tutta la sua evidenza e gravità. L’invasione dell’Ucraina prima, e la nuova crisi in Medio Oriente poi, hanno mostrato la debolezza e la vulnerabilità di un’Unione priva di un centro decisionale politico. Gigante economico e nano politico, l’Unione tale era e tale è rimasta. Con la tipica modestia che li contraddistingue, i francesi amano dire che, nella carrozza Europa, la Germania è il cavallo e la Francia il cocchiere. Berlino è la maggiore potenza economica del Vecchio Continente, capace di trainare gli altri paesi. Ma Parigi ha un’altra caratura diplomatica, in fondo ha la bomba atomica e un seggio nel consiglio di sicurezza dell’Onu, unica nell’Ue dopo l’addio della Gran Bretagna. Quale che sia l’equilibrio che si stabilisce di volta in volta, è sull’asse franco tedesco che si è sempre strutturata l’Unione. E la Germania del dopo Merkel sembra fare sempre più fatica ad assumersi un ruolo di centro aggregatore.
“La vera unificazione europea inizia negli anni ’90. Da quel momento si apre un periodo di 10-15 anni, direi fino al Trattato di Lisbona, siglato alla fine del 2007, in cui l’Europa cerca davvero di strutturarsi anche politicamente, di diventare un soggetto politico “adulto”, in grado di occuparsi da solo dei propri interessi”, spiega a Ilfattoquotidiano.it lo storico Mauro Maggiorani che insegna Integrazione politico-economica dell’Ue all’università di Bologna. Poi però arrivano i passi falsi. “Ad esempio la quinta fase dell’unificazione che fa entrare i paesi dell’Est. Un’operazione che considero affrettata, questi stati non erano pronti, non condividevano appieno i valori democratici del nucleo originario dell’Unione, erano e sono rimasti poco solidali con gli altri paesi”, osserva Maggiorani. Per questa ed altre ragioni la spinta iniziale al completamento dell’integrazione gradualmente si affloscia. “Da un lato c’è una Russia che torna a voler essere una superpotenza e dà origine ad una sorta di guerra fredda in tono minore. Dall’altro un impoverimento della caratura del personale politico. Non ci sono più Mitterand in Francia e Kohl in Germania, per intenderci”, continua il docente. L’allargamento a Est è “venuto male” e il clima generale cambia, non solo in Europa. Il futuro pare più incerto e gli stati sono più restii a fare passi avanti. “Poco alla volta prevale un ripiegamento, una chiusura, che ha anche l’effetto di alimentare populismi dove tutto ciò che non è come me è percepito come qualcosa di ostile. E questo, naturalmente, è esiziale per un progetto che mira ad unire culture diverse”, conclude Maggiorani.
Torniamo all’oggi e si prenda il caso dell’invasione russa dell’Ucraina. L’Ue si è rintanata sotto l’ombrello Nato delegando completamente la gestione della crisi agli Stati Uniti, a volte sembrando persino più realista del re nel spazzare via dal tavolo qualsiasi ipotesi di trattativa. Eppure è l’Europa che sta pagando il prezzo più alto del conflitto. Le sanzioni sembrano fare più danni all’Unione che alla Russia. “Staccarsi” dai gasdotti russi ha avuto un prezzo alto, il gas si paga oggi oltre 40 euro al megawattora, oltre il doppio rispetto alla media degli ultimi anni. Soprattutto si paga tre o quattro volte tanto rispetto agli Stati Uniti, un duro colpo alla competitività dell’industria europea. Contro cui, peraltro, Washington ha sferrato un altro fendente varando l’Inflation Reduction Act, programma da quasi mille miliardi di dollari che premia le produzioni sul territorio nazionale a scapito di quelle realizzate all’estero.
Da chi compra adesso l’Europa il gas che non acquista più dalla Russia? In gran parte proprio dagli Stati Uniti, da cui arrivano via nave i carichi del costoso gas liquefatto (lng). La sicurezza energetica del Vecchio Continente non è più in balia del Cremlino ma lo è dei capricci di imprese private statunitensi. Shell e Bp hanno ad esempio dovuto appellarsi a Washington e Bruxelles per chiedere che l’americana Venture Global Lng rispettasse accordi di fornitura miliardari invece di dirottare le sue navi verso destinazioni divenute più profittevoli. Non saremo insomma caduti dalla padella nella brace ma neppure ci siamo salvati dalla cottura. La Germania, insieme all’Italia uno dei paesi Ue più dipendenti dal gas, ha subito senza reagire la compromissione di un’infrastruttura chiave come il gasdotto Nord Stream. Condotta con una capacità da 100 miliardi di metri cubi l’anno (dieci volte il nostro Tap, per intenderci) che la univa alla Russia passando sui fondali del mar Baltico. Un sabotaggio che, a quanto pare, è risultato alla fine essere di matrice ucraina.
Eppure Berlino non solo incassa e tace ma condivide il piano per accelerare l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue. Può darsi che la visione di Angela Merkel fosse sbagliata e imprudente. È facile oggi considerare improvvida l’idea di rafforzare i legami con Mosca, energetici e non, per addomesticare il Cremlino e ritagliarsi un margine di azione sganciato dai diktat statunitensi. Tuttavia è invece difficile dire se con una Germania più attiva Vladimir Putin avrebbe fatto le stesse, sciagurate, scelte.
Altro caso di nichilismo europeo è quello della Palestina. L’approccio alla crisi è stato schizofrenico. All’integralismo pro Israele incarnato dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen (non eletta dai cittadini, non titolare della gestione della politica estera Ue e alla guida di una Commissione in scadenza) si è contrapposta una posizione molto più sfumata ed equidistante portata avanti dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel e da Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri. Per una Spagna decisa nel rinfacciare a Tel Aviv le responsabilità dei massacri a Gaza c’è una Germania che vive una sorta di psicodramma e arriva a vietare qualsiasi manifestazione pro Palestina. Intanto von der Leyen si è recata in Egitto per promettere al paese 9 miliardi di euro. Si prepara il terreno per un esodo di massa da Gaza che lascerebbe la striscia “libera” da palestinesi da trasferire in Egitto. Di certo, questo atteggiamento e la timidezza di Bruxelles nel limitare la reazione israeliana, erodono la residua credibilità di un’Unione che ama proporsi al mondo come custode e paladina dei diritti umani. Raramente passando dalle dichiarazioni ai fatti, ora però, neppure più a parole.
Torniamo all’economia, il “core business” dell’Unione. Anche qui c’è poco da stare allegri. Poca visione, pochi slanci, ritorno all’antico. Se non si trova un’intesa sulla riforma del famigerato Patto di Stabilità, tra un mese si ritorna ai vecchi parametri del 3% per il deficit e del 60% per il debito. Numeri non certo magici, visto che erano semplicemente i valori medi dei paesi candidati all’ingresso nell’Unione, fissati quarant’anni fa. Nel frattempo tutti, o quasi, i debiti pubblici sono saliti e, tra gli economisti, non esiste più (ammesso che mai sia esistito) un consenso su quale sia il grado di debito tollerabile per uno stato. “Con l’emergenza Covid si era aperta una finestra per cambiare la filosofia alla base del Patto. Si era finalmente capito che gli stati hanno un ruolo cruciale da svolgere quando si tratta di salvare il sistema dalle crisi. Ed era stato così anche con quella finanziaria del 2007-2008″, ci dice il professor Francesco Saraceno, economista e vicedirettore di Dipartimento presso l’Ofce (Observatoire Français des Conjonctures Economiques), il Centro di Ricerca in Economia di Sciences-Po a Parigi. “L’idea era quindi diventata quella di capire come salvaguardare questo ruolo degli stati senza far deragliare i conti pubblici“, continua Saraceno notando come questa fosse anche l’essenza della prima proposta di riforma della Commissione Ue in cui era contemplata una maggiore attenzione alla sostenibilità del debito caso per caso invece che in base a valori comuni prestabiliti. “Poi però, sottolinea l’economista, le cose sono di nuovo cambiate sotto la spinta della Germania, in particolare del ministro delle Finanze Christian Wolfgang Lindner. La priorità è tornata ad essere la riduzione del debito, tentando di non penalizzare troppo l’economia”. Una contro rivoluzione copernicana, insomma, che trova espressione nelle più recenti bozze di riforma.
In questo scenario sembra ragionevole la posizione dell’Italia che vorrebbe almeno escludere dal computo del debito gli investimenti nella transizione verde. “È una linea che condivido, la cosiddetta “golden rule” per gli investimenti è giusta, così come sono corrette le considerazioni espresse congiuntamente da Emmanuel Macron e Mario Draghi sul Financial Times a fine 2021 in merito all’opportunità di distinguere tra debito buono e cattivo”, ragiona Saraceno. L’economista rimprovera però gli ultimi tre governi italiani (Conte 2, Draghi e Meloni): “Si sono mossi tardi, sono stati silenti e fermi quando era il momento giusto per parlare e cambiare le cose. Avrebbero potuto farlo con una credibilità maggiore rispetto ad oggi”. Mercoledì scorso proprio Mario Draghi ha affermato che questo per l’Europa “è un momento critico e speriamo che ci tengano insieme quei valori fondanti che ci hanno messo insieme. Il modello di crescita si è dissolto e bisogna reinventarsi un modo di crescere ma per fare questo occorre diventare Stato”.