Sarà anche la giornata dedicata alla finanza e sulla parità di genere ma, nonostante una quarantina di impegni finanziari annunciati, alla Cop 28 di Dubai l’attenzione è rimasta molto alta sul tema dei combustibili fossili, dopo le polemiche sulle parole pronunciate dal presidente della Conferenza delle Parti di Dubai, Sultan al-Jaber in merito all’eliminazione graduale di petrolio, gas e carbone. In conferenza stampa, il ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti si è difeso e diversi leader politici hanno commentato l’accaduto con una certa diplomazia. E mentre c’è attesa per il Global Stocktake, il bilancio su quanto è stato fatto finora rispetto agli impegni presi dall’Accordo di Parigi del 2015 (la seconda bozza dovrebbe essere pubblicata il 5 giugno, nel giorno che la Cop dedica all’Energia, ndr) il rapporto Net Zero Tracker mostra gli impegni globali sul phase out delle fossili, passando in rassegna quelli degli Stati, ma anche di città e aziende. Appena due dei 63 Paesi (il 3 per cento) che producono carbone e hanno un obiettivo per emissioni nette zero si sono impegnati per lo stop totale alle esplorazioni di nuovi giacimenti e quelli che prevedono lo stop alla produzione di carbone (solo il 13%) rappresentano il 5% della produzione globale.

Sultan al-Jaber si difende: “Fraintese le mie parole” – Ma la quinta giornata di Cop non poteva che iniziare con le reazioni all’articolo del Guardian sulle dichiarazioni di al Jaber, secondo cui “non esiste alcuna scienza che indichi sia necessario per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali”. Prima c’è stata la difesa del direttore generale della Cop, l’ambasciatore Majid Al Suwaidi, poi il sultano stesso ha affermato in conferenza stampa di “rispettare le raccomandazioni della scienza sul cambiamento climatico” e di essere sorpreso “dai tentativi ripetuti di minare il lavoro della presidenza della Cop 28”. E ha aggiunto: “Sono un ingegnere, un economista e combino la passione per la scienza e il business. La scienza è al centro dei progressi che ho fatto nella mia carriera. Le mie parole sono state interpretate male”. Sceglie la strada della diplomazia l’inviato speciale della Casa Bianca per il clima, John Kerry, secondo cui “la scienza non prescrive un approccio particolare, non dice che devi fare questo o quello”, ma “quello che bisogna fare è ridurre le emissioni, almeno del 43% entro il 2030” e di raggiungere “zero emissioni nette nel 2050” per mantenere il riscaldamento sotto 1,5° Celsius. Non ha infierito il primo ministro delle Barbados, Mia Mottley, che porta avanti la battaglia sul fondo per le perdite e i danni. Tanto che ha ringraziato il sultano per il suo lavoro sul vertice. Ma la posta in gioco è alta.

I finanziamenti – Gli Emirati Arabi Uniti si sono impegnati a favore del fondo perdite e danni (per il quale sono stati promessi finora 655 milioni di dollari) e c’è molta pressione, come per altri Paesi, anche affinché contribuiscano al Green Climate Fund, il più grande fondo multilaterale al mondo dedicato ad aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontare la crisi climatica. “Istituito nel 2010 nell’ambito della convenzione Unfccc – ricorda il think tank Ecco – ha ricevuto inizialmente 10,3 miliardi di dollari in impegni da 45 Paesi, poi nel 2019 altri 10 miliardi di dollari in impegni da 32 Paesi”. Ora è in corso un rifinanziamento per il quale sono stati raccolti 12,8 miliardi di dollari, cui 300 milioni di euro dall’Italia. Per quanto riguarda l’obiettivo dei Paesi ricchi di mobilitare collettivamente, come promesso nel 2009, 100 miliardi di dollari di finanziamenti annui per il clima dal 2020 al 2025, i donatori affermano che probabilmente hanno raggiunto l’obiettivo nel 2022, ma i paesi in via di sviluppo sottolineano che non ci sono ancora i dati a supporto di tale affermazione. E, nel frattempo nei dibattiti sono centrali anche le questioni relative alla qualità dei finanziamenti e all’accessibilità dei fondi. Come ricorda il think tank, i flussi finanziari complessivi per il clima ammontano a circa 1,3 trilioni (miliardi di miliardi) di dollari nel periodo 2021/2022, il doppio rispetto ai 653 miliardi di 2 anni fa. “La maggior parte di questa crescita – spiega – è attribuibile ad investimenti in mitigazione, soprattutto nel settore elettrico e dei trasporti. Il 90% dell’aumento arriva da un numero ristretto di paesi: Cina, USA, Europa, Brasile, Giappone e India”. Per avere un’idea delle necessità, però, il rapporto Stern-Songwe stima che solo per gli obiettivi dei paesi nei mercati emergenti e in via di sviluppo (esclusa la Cina) siano necessari un trilione nel 2025 e 2,4 trilioni entro il 2030 per rimanere entro i target di Parigi. Nel frattempo, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, a livello globale il totale dei sussidi ai combustibili fossili ammontava a 7mila miliardi di dollari nel 2022, pari a quasi il 7,1% del Pil mondiale.

Il divario tra gli obiettivi e le azioni – E così, come rivela il Net Zero Tracker, solo il 3% dei Paesi che si sono impegnati per il target net zero rinunciano a nuove esplorazioni di petrolio (percentuale identica per il gas). D’altro canto solo cinque Stati hanno in agenda lo stop alla produzione di petrolio. E valgono, complessivamente, lo 0,8% della produzione globale. Due, invece, quelli che si sono impegnati per bloccare la produzione di gas (e rappresentano meno dell’1% della produzione totale). Questo significa che anche se i target già fissati sulle emissioni nette zero coprono l’88% delle emissioni globali di gas serra, “appena il 7% di tali emissioni è coperto da almeno un impegno di eliminazione totale o parziale su esplorazione, produzione o utilizzo di carbone, petrolio o gas.

Se cattura e stoccaggio non convengono – Per eludere i loro impegni, diversi Paesi (e compagnie oil&gas) puntano sulle tecnologie di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica. A riguardo, è stato appena pubblicato un rapporto della Smith School of Enterprise and the Environment dell’Università di Oxford, secondo il quale una forte dipendenza dalla Cattura e stoccaggio di carbonio (Ccs) per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni intorno al 2050 sarebbe “enormemente dannosa dal punto di vista economico”, con un costo superiore di almeno 30mila miliardi di dollari rispetto a un percorso basato sulle energie rinnovabili, l’efficienza energetica e l’elettrificazione. È circa il doppio di quanto costerebbe la decarbonizzazione della Cina, secondo la Banca Mondiale. La tecnica di Carbon Capture and Storage è, di fatto, uno dei punti cruciali del più ampio dibattito sull’uscita (phase-out) dalle fonti fossili, il vero ago della bilancia nei negoziati in corso alla Cop 28 a Dubai. “Attualmente, a livello globale sono operativi circa 40 impianti commerciali di cattura della Co2 e catturano annualmente 45 milioni di tonnellate di Co2, equivalenti allo 0,12% delle emissioni globali del 2022 legate all’energia” spiega Chiara Di Mambro, responsabile Politiche della Decarbonizzazione di Ecco, secondo cui “pur avendo un ruolo nel percorso verso le emissioni nette nulle al 2050, la Ccs è una tecnologia sviluppata ad una scala molto limitata e, in linea con la posizione europea o con la Iea (Agenzia internazionale dell’energia), dovrebbe essere dedicata alle sole emissioni non altrimenti evitabili, dove non vi siano alternative disponibili, come nel caso di alcuni processi industriali hard to abate”.

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