“È stata una giornata meravigliosa, dopo che il 21 settembre l’Assemblea nazionale ha risposto all’insolenza della Exxon Mobil e del governo della Guyana che hanno cercato di dividere il mare venezuelano, per cercare di utilizzare il territorio conteso e insediare basi del Comando Sud degli Stati Uniti contro il Venezuela”. Così il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, ha commentato il risultato del voto per i 5 referendum che il suo governo ha voluto con forza e determinazione.

Domenica 3 dicembre più di 10 milioni tra venezuelane e venezuelani hanno sostenuto che la Guyana Esequiba deve tornare ad essere territorio del Venezuela. Una vicenda che pur gettando le basi nella storia del continente e negli scontri tra potenze coloniali guarda all’attualità. Maduro si prepara alle elezioni presidenziali del 2024 e la campagna elettorale referendaria, condotta con grande sforzo economico e organizzativo dal governo, è stata per lui un grande spot sulla sua figura di leader. A ciò va aggiunto che negli ultimi anni nella Guyana Esequiba, che rappresenta circa i due terzi dell’intero territorio della Guyana Francese, sono stati scoperti importanti giacimenti petroliferi.

La situazione economica del Venezuela è certo poco felice e poter mettere le mani su nuovi giacimenti di “oro nero” sarebbe un’importante boccata d’ossigeno per la società petrolifera statale, oltre che una maniera per indebolire competitor di mercato. Ma nella Guyana Esequiba ci sono anche importanti riserve di oro, diamanti, ferro e altri minerali preziosi, è un territorio scarsamente popolato ma molto ricco e interessante per le mire del capitalismo estrattivo, tanto che una delle maggiori fonti di ricchezza della Guyana è la miniera Omai che tra il 1993 e il 2005 ha garantito l’estrazione di oltre 100mila chilogrammi d’oro.

Maduro si è giocato le sue carte politiche parlando pubblicamente e nuovamente di uno scontro anti-imperialista con gli interessi nord-americani e così non pare casuale la data scelta per il referendum, visto che il 2 dicembre di quest’anno cadeva il 200esimo anniversario della promulgazione dalla dottrina Monroe, di fatto l’inizio del percorso colonialista statunitense su tutto il continente americano. Più che una rivalsa storico/territoriale, la partita pare molto più politica ed economica e risponde alle esigenze del governo di Caracas. Ora anche con la vittoria in mano è però difficile che Maduro possa davvero annettere il territorio, anche perché venerdì 1 dicembre la Corte internazionale di giustizia (Icj) dell’Aja ha sentenziato e fatto sapere al Venezuela che deve “astenersi da iniziative che dovessero modificare la situazione prevalente nel territorio in litigio”. Difficile pensare che Caracas voglia iniziare una guerra d’invasione con il vicino, più facile che inizi una trattativa sulla gestione delle aree di confine tra i due Paesi. Allo stesso tempo, le tensioni che si sono innescate potrebbero aprire a nuovi scontri con gli Usa, oltre che con la popolazione della Guyana.

Ma a guardare con preoccupazione alla situazione sono anche altri Paesi del cono sud delle Americhe, tra questi c’è il Brasile che già nei giorni scorsi aveva dichiarato, per voce dell’ambasciatrice Gisela Maria Figueiredo, “guardiamo con apprensione a questa situazione di tensione tra due Paesi vicini e amici”. E ha aggiunto: “In un momento storico in cui diverse regioni nel mondo sono attraversate da conflitti militari è importante che l’America del Sud rimanga ambiente di pace e cooperazione”. Il Brasile di Lula, che confina sia con la Guyana che con il Venezuela, sta cercando di porsi come mediatore, probabilmente spaventato da possibili ingerenze straniere sull’area, l’incognita che agita anche le Nazioni Unite e analisti politici, trasformando la linea di confine tra i due Stati in un nuovo fronte di osservazione internazionale nella sempre più violenta e articolata guerra globale per il controllo dei territori.

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