Dal 27 novembre al 5 dicembre è andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma il Mefistofele di Arrigo Boito, un unicum nella produzione operistica italiana dell’Ottocento. Figura dal fascino peculiare e dai grandi onori in vita (fu Direttore del Conservatorio di Parma, laurea honoris causa in musica presso l’Università di Cambridge e senatore del Regno d’Italia), dalla vita avventurosa (fu, tra le altre cose, volontario garibaldino e amante di Eleonora Duse) e dalla creatività vulcanica e versatile (autore di poesie, opere teatrali, traduzioni anche celebri, novelle e, per l’appunto, compositore) Boito ha pagato negli anni, talvolta, l’etichetta scolastica di “scapigliato”, che ha spesso ridotto il suo talento principalmente al ruolo di librettista di alcuni capolavori dell’ultima fase del repertorio verdiano.
Il Mefistofele (composto nella prima stesura a ventisei anni), dichiaratamente ispirato alla versione del mito faustiano immortalata dal sommo Goethe, è un’opera complessa, stridente, dagli evidenti risvolti iniziatici (sottolineati dalla scelta blakeana della locandina), che ha subito una gestazione travagliata: dopo il fiasco clamoroso della prima alla Scala nel 1868, l’opera fu rivista e corretta da Boito e portata in scena, con grande successo, al Teatro Comunale di Bologna sette anni dopo.
Si tratta di una composizione articolata in quattro atti, più prologo ed epilogo, in cui Boito tenta ardite sperimentazioni (il coro dell’epilogo “siam nimbi/ volanti dai limbi” nella sua cherubica leggerezza evoca, per contrasto, quasi un ritmo tarantolato), simmetrie speculari dal chiaro significato allegorico (la struttura quasi a chiasmo tra cori angelici e i sabba infernali) e in cui sembra cercare una difficile (all’epoca impossibile) sintesi tra l’aspirazione wagneriana a “l’opera totale” (vocazione più presente nella prima stesura e motivo dell’insuccesso) e la tentazione del canto più popolare, oseremmo dire quasi già vicino a Verdi (pur contestato dal giovane Boito), quasi anticipando la futura collaborazione fra i due.
Venendo alla rappresentazione romana: da spettatore “estetico” più che “critico”, secondo la distinzione proposta da Nietzsche ne La Nascita della Tragedia, dedicata proprio a Wagner, ho trovato notevole, a tratti eccellente, l’esecuzione dell’opera. In particolare, d’impatto straordinario la prova del coro, diretto da Ciro Visco, su una partitura certo non facile: di grande suggestione il contributo delle voci bianche come cherubini, per cui ringraziamo Alberto de Sanctis.
Complimenti che vanno estesi al direttore dell’Orchestra Michele Mariotti, in grado di restituire tutta la varietà di toni del melodramma: dai toni angelici al grottesco, dall’esaltazione allo strazio, dalla tortura interiore alla redenzione.
Ciò che desta profonde, inconsolabili perplessità è la scelta registica di Simon Stone: la piaga (perché tale è) dell’attualizzazione a tutti i costi è ormai una forma di prassi conformista che affligge quasi ogni rappresentazione operistica (e teatrale). Voler mettere un tablet in mano a Mefistofele, voler inserire le cubiste nelle scene di festa, voler mostrare il “frate grigio” (lo chiama proprio così Faust), sotto le cui spoglie si nasconde il demone tentatore, come un pagliaccio gelataio à la Stephen King vuol dire proprio non aver capito il senso degli archetipi letterari.
Mi si dirà subito: “Ma anche lo stesso Goethe, e Marlowe prima di lui, ha reinterpretato un mito medievale a suo modo, anche le fiabe cambiano finale nelle differenti versioni, anche i miti greci e indiani vengono variati di senso nel corso dei secoli, si è sempre fatto, ogni epoca reinterpreta a suo modo etc.”. Certo. Ma dipende come lo si fa. Si tratta dello stesso equivoco del Napoleon di Ridley Scott: il problema non è la mera accuratezza storica (“non è un documentario!”, lo sappiamo), ma l’intento e il risultato della “libertà creativa”.
In questo caso, ambientare un sabba in un ambiente asettico come una sala Ikea o avvilire il più commovente finale della storia della letteratura tedesca, in cui l’Eterno Femminino redime un ricercatore sceso a patto col diavolo, nel triste uno squallore di una Rsa significa impoverire la forza perenne dei simboli, oltre che la potenza attoriale degli interpreti. Meno male una splendida esecuzione ha comunque reso giustizia alla rilettura coraggiosa e (quella sì!) originale di Arrigo Boito di uno dei più grandi capolavori della riflessione spirituale occidentale.
Foto di @fabrizio.sansoni