di Pietro Francesco Maria De Sarlo

Era una notte buia e tempestosa… anzi no, quando giovane ingegnere 23enne di belle speranze e modesto aspetto varcavo il portone del terzo palazzo uffici di San Donato. La società che mi aveva assunto con la qualifica di industrial economist, da formare, era la Snamprogetti, società di engineering dell’Eni. All’epoca nella direzione strategie, retta dall’ingegner Parmeggiani, passavano tutti i progetti di rilevanza nazionale: dal Piano Porti italiano al piano di ristrutturazione dell’ex EGAM, che gestiva le miniere italiane, fino al piano energetico nazionale.

Tra i suoi clienti non c’era solo il governo italiano, ricordo: ci occupammo dello Zimbabwe, del Messico e di tanti progetti sparsi per il mondo.

In quegli anni c’era un giovane ministro rampante, Giorgio La Malfa, che lanciò il FIO, Fondo Investimenti Occupazione, che oltre alla redditività economica per i progetti pubblici, o da finanziare con denaro pubblico, pretese la valutazione della redditività sociale e l’analisi costi benefici.

Si può discutere o meno della validità di queste metodologie, ma sempre meglio della gestione amicale e clientelare degli investimenti pubblici quanto non al servizio di lobby come quelle servite sul Britannia da Mario Draghi, con la svendita di tutto ciò che era pubblico, e dell’opacità con cui si finanziano i progetti PNRR.

In questo contesto fummo chiamati, e io giovane di bottega tra questi, a valutare le alternative per collegare Messina a Reggio Calabria. Il ponte, con tutte le sue varianti come campata unica o meno, era una di queste. Le altre erano il tunnel scavato nella roccia e il tunnel sommerso, ossia un tubo sotto l’acqua: sospeso tra il fondale e la superficie. Correva l’anno di grazia 1980.
Da allora tanta acqua è passata sotto il mancato ponte, e ancora siamo in bilico tra il farlo e il non farlo.

Non voglio qui discutere se sia conveniente o meno, se sia tecnicamente realizzabile o no. Fiumi di inchiostro sono stati sprecati e le relazioni tecniche non mancano ma, ora come allora, ci sono due motivazioni dei contrari al Ponte che mi irritano profondamente.

La prima, la più diffusa, è che fare il Ponte sia un regalo alla mafia. Bene, allora nessuna opera pubblica significativa potrà mai essere fatta al Sud perché ogni opera sarà un regalo alla mafia. La corruzione non è stata un ostacolo per la realizzazione del Mose, e tra Pedemontana e BreBeMi si sprecano le opere inutili al Nord. In aggiunta, da cittadino italiano, pretendo di avere gli stessi diritti e doveri sia se scelgo di abitare a Milano sia a Reggio Calabria: lo Stato deve garantire la legalità su tutto il territorio nazionale. Se così non è che allora rinunci alla sovranità su tutto ciò che è al di sotto del Garigliano.

L’altra motivazione irritante è: prima di fare il Ponte c’è ben altro da fare. Bene. Dov’è l’elenco completo delle opere da fare con data inizio e relative priorità prima di fare il Ponte? Perché se questo elenco non c’è significa che è solo aria fritta gettata al vento come alibi per non fare, ancora una volta, nulla al Sud.

Poi se il ponte s’ha da fare o meno va valutato nel modo più razionale possibile, considerando anche l’impatto paesaggistico e, per carità, anche gli ostacoli alla migrazione dei volatili che il Ponte a quanto pare creerebbe.

Detto ciò se non si fa il Ponte cosa si deve fare? Il Sud ha bisogno di un piano di visione per il suo rilancio e questo piano non può che essere centrato anche sulle infrastrutture. C’è bisogno di un progetto sfidante dal punto di vista tecnico, dal punto di vista della legalità, dal punto di vista della realizzazione, dal punto di vista del potenziale iconico, insomma un progetto simbolo di riscatto per l’intero Mezzogiorno perché, come per ogni sfida umana, servono i progetti e le sfide simbolo.

Il Ponte potrebbe essere questo progetto, ma se non piace il Ponte occorre proporre una alternativa altrettanto sfidante e simbolica. Quale?

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