Tre episodi in tre giorni regalano l’immagine di una Catania tornata indietro nel tempo: il presidente della Confindustria cittadina che si dimette dopo la notizia che la sua azienda paga il pizzo da vent’anni, il vicepresidente del Consiglio comunale condannato per corruzione elettorale, l’incontro dell’associazione antiestorsione disertato dalle istituzioni. Eccola, la città lontana ormai anni luce da quella primavera che la vide emergere nel panorama siciliano e meridionale. La sequenza è allarmante: il primo episodio in senso cronologico ha investito il presidente degli industriali etnei, Angelo Di Martino. Le intercettazioni dell’indagine “Doppio petto”, che sabato ha portato a dieci arresti, hanno svelato come la sua ditta fosse da lungo tempo vittima di estorsioni della criminalità organizzata: “Questo è vent’anni che paga”, dicevano due degli indagati a proposito di Filippo Di Martino, suo fratello e socio. Sentito dai pm antimafia come persona informata sui fatti, il capo della Confindustria locale ha confermato tutto: “Le persone a cui corrisponde l’estorsione sono mafiosi e pertanto ha insistito di pagare per evitare ritorsioni e lavorare tranquilli”, riassume il gip nell’ordinanza che ha disposto le misure cautelari. Lo scandalo ha travolto Di Martino al punto da spingerlo a dimettersi lunedì, due giorni dopo l’operazione.
Lo stesso giorno il tribunale catanese condannava a due anni con pena sospesa il vicepresidente del Consiglio comunale, Riccardo Pellegrino di Forza Italia: era stato scelto dall’assemblea nonostante fosse a processo per voto di scambio, accusato di avere comprato preferenze per cinquanta euro (il fratello Gaetano è stato condannato definitivamente a nove anni per traffico di droga). La condanna non fa scattare la sospensione obbligatoria prevista dalla legge Severino (serve una pena superiore ai due anni) ma basta per accendere le polemiche: “Si pone un serio problema di etica pubblica. Può rimanere a ricoprire l’attuale incarico istituzionale? La classe politica ai vari livelli è priva di tensione etica e rimane abbarbicata alla poltrona, sempre e in ogni caso. È la stessa classe politica che ogni anno indossa la maschera del perbenismo e commemora il sacrificio di Borsellino e delle altre vittime dell’illegalità mafiosa. Indecenza senza limite”, tuona il presidente dell’associazione Antimafia e legalità, l’avvocato Enzo Guarnera, difensore di storici collaboratori di giustizia. I consiglieri comunali del M5s, invece, accusano i colleghi che hanno votato Pellegrino alla vicepresidenza “nonostante le pesanti accuse a suo carico”: “Al consigliere, al quale auguriamo di dimostrarsi estraneo ai fatti, chiediamo le dimissioni da vicepresidente e invitiamo il sindaco (il meloniano Enzo Trantino, ndr) a prendere una chiara posizione in merito“.
In mezzo a questi due eventi ne spicca un terzo. È domenica mattina, il giorno dopo l’operazione che ha svelato come perfino l’azienda del presidente di Confindustria pagasse il pizzo da vent’anni: in uno spazio di coworking l’associazione antiestorsione Asaec organizza un incontro pubblico tra le istituzioni e gli imprenditori che hanno denunciato il racket. Le istituzioni, però, danno forfait: “È venuta solo la portavoce del sindaco, per pochissimo tempo”, denuncia Nicola Grassi, presidente dell’associazione. Ma assenti sono anche le forze dell’ordine: pur “avvisati tutti per tempo”, nessuno è stato in grado di partecipare. “Stare dalla parte di chi coraggiosamente ha denunciato l’usura è un segnale ben preciso per affiancare chi ha deciso di stare con lo Stato”, sottolinea Grassi. Che alza le spalle: “Non sta succedendo nulla di nuovo, quello che emerge è che il pizzo viene esercitato a tappeto su Catania e provincia e le evidenze investigative mostrano come sia raro che gli imprenditori denuncino. Forse perché le istituzioni sono troppo distanti?”. Tre episodi, insomma, che descrivono una città sommersa dal potere mafioso e dalla corruzione: “Ancora più del profilo penale di queste vicende – dei gradi di giudizio e della verità giudiziaria – colpisce il profilo culturale”, nota la segretaria provinciale del Pd, Maria Grazia Leone. Che chiosa: “Alla politica, alle istituzioni, a chi inevitabilmente diventa esempio per tutti serve più coraggio, più testardaggine per provare che si può vivere a testa alta senza arrendersi gettando la spugna in un mare che sembra non cambiare mai corrente”.