Breaking The Silence (“rompere il silenzio”, di seguito Bts) è una Ong di ex militari dell’esercito israeliano (Israeli Defence Force, IDF) che da anni lotta contro l’occupazione e il “dominio militare israeliano sulla popolazione civile palestinese”, come scrivono sul loro sito.

Gli analisti di Bts hanno studiato, tra le migliaia di testimonianze raccolte negli anni, quelle su come “fare la guerra” secondo l’IDF. E ne hanno enucleato due “principi fondamentali”. Il primo principio è “rischio zero per i militari israeliani”, il secondo è la “dottrina Dahiya”. Vediamoli.

Il principio del “rischio zero” è semplice. Nadav Weiman, Direttore senior dell’Ong, scrive su The Independent che per rendere “più sicuri i soldati” (israeliani) il rischio viene “trasferito” sui civili (palestinesi), “anche se non sono coinvolti nelle ostilità”. La “dottrina Dahiya” è il secondo principio e prende il nome da un quartiere di Beirut (Dahiya, appunto) che Israele bombardò in modo pesante ai tempi della guerra del Libano, nel 2006. Spiega Weiman, che ha combattuto a Gaza nel 2008: “in un conflitto asimmetrico contro un attore non statale (i palestinesi non hanno né uno Stato né un esercito regolare, nda), si può raggiungere un periodo di calma causando danni sproporzionati alle risorse militari e alle infrastrutture e proprietà civili”.

Il “metodo” è semplice: “la forza deve essere sproporzionata”. L’azione militare del 21 ottobre a Gaza esemplifica ciò che accade sul campo. Israele avverte i civili di evacuare “immediatamente” tramite volantini, ove si legge: “Chiunque scelga di non partire dal nord della Striscia [di Gaza] al sud di Wadi Gaza potrebbe essere definito complice di un’organizzazione terroristica” riporta Weiman. “Convertiti – concettualmente – il quartiere in ‘campo di battaglia’ e i civili rimasti in ‘terroristi’, non c’è alcuna necessità di limitare l’uso della forza”, chiude il direttore di Bts. Ci si muove così come in una guerra convenzionale.

In precedenti operazioni, ex soldati riferivano che “l’ordine era di trattare tutti come militanti di Hamas”. Ad altri fu detto: “Chiunque sia lì, per i militari è condannato a morte” e “si spara a tutto ciò che si muove”. E ancora: “Ci hanno detto: non dovrebbero esserci civili. Se identifichi qualcuno, gli spari”. Questi gli ordini. E spiegano che “la percezione, quando sei lì, è che chiunque sia un terrorista”.

Che la “dottrina Dahiya” fosse oggi operativa, l’Ong lo ravvisava nelle parole iniziali di Daniel Hagari, portavoce IDF: “L’enfasi è sui danni, non sulla precisione” (nota 3), tra le espressioni potenzialmente genocide per oltre 800 studiosi (anche di Olocausto).

Lo scopo dichiarato della “dottrina” è creare “deterrenza” e “si fonda – scrive Weiman in un altro intervento – sull’idea dei ‘round’ di combattimento, come vengono chiamati in Israele. Non vuole essere decisivo, ma rinviare e scoraggiare il prossimo, inevitabile, round”. Ma non si ottiene alcuna deterrenza, solo “spingere la sicurezza a lungo termine sempre più fuori portata a favore di un senso di calma a breve termine”. E’ “anche immorale”, aggiunge, perché provoca migliaia di morti innocenti e “cancella interi quartieri dalla mappa”.

“Sconfiggere Hamas”? La solita bugia

Sul New York Times Benzie Sanders (ex soldato, voce di Extend, Ong che collega ebrei americani, israeliani e attivisti e politici palestinesi) scriveva del suo combattimento a Gaza, nel 2014; vedendo i cadaveri dei compagni si chiedeva se ne valesse la pena. “Sì, se ‘eliminiamo definitivamente la minaccia’ (Hamas, nda)”. E questa “è la bugia che ci dicono, ed è la bugia che stanno ripetendo oggi, che noi possiamo eliminare definitivamente Hamas tramite una operazione militare”, spiega alla Cnn. È quel che sottolinea anche Ariel Bernstein, un altro veterano, sul Guardian. “Ma una sopraffacente distruzione militare è un errore catastrofico (..) lo stesso che ci ha portato al 7 ottobre”, chiude Sanders. Perché “non esiste una soluzione militare a questo conflitto” (le stesse conclusioni di Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet e tra i massimi esperti israeliani di antiterrorismo).

“Gestire il conflitto”

La politica israeliana ha sempre parlato di “gestione del conflitto”. Che nel contesto concreto dell’occupazione diventa un “conflitto ingestibile” (e dunque “infinito”). Perché è impossibile, spiegano gli ex soldati, “gestire il conflitto e mantenere (al contempo, nda) un regime militare molto brutale di controllo sui palestinesi (sulla loro vita civile, nda)”. È il punto fondamentale: il conflitto non si può “gestire”, ma si può risolvere, mettendo fine all’occupazione. È l’appello di Breaking The Silence: “Noi siamo qui. Oggi, domani e finché l’occupazione non finisce”.

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