Di cosa parla il Don Carlo che andrà in scena per la Prima della Scala di Milano? Carlo all’anagrafe in realtà sarebbe Carlos perché è spagnolo, anzi è il figlio del re, povero lui, nel senso di Carlo. Due parole (povero lui) con le quali si potrebbe sintetizzare tutta la vicenda e invece sprigionano quattro ore suonate di un thriller drammatico che intreccia trame affettivo-romantico-sentimentali, implicazioni politiche e riflessioni intimistiche, altro che momenti what the fuck adatti per Netflix. Un racconto dei racconti, pieno di colpi di scena e capovolgimenti (e pure tradimenti), che il genio di Giuseppe Verdi – vale la pena rammentarlo – mette giù decenni prima che qualcuno potesse fantasticare che un giorno ci sarebbero stati cinema, tv, serie con sei stagioni da 8 puntate l’una.
C’è una storia d’amore, certo, che fa da filo conduttore, ma in traslucido si riconosceranno altri e diversi piani. Una guerra senza esclusione di colpi tra padre e figlio, cioè Filippo e Don Carlo, sia sul piano intimo (sono rivali in amore) sia sul piano politico (Don Carlo ha una visione vagamente illuminata sull’autodeterminazione dei popoli). Uno scontro ideale o forse solo generazionale tra la monarchia assoluta sulla cresta dell’onda e grande claque e gli slanci “liberali” ante-litteram e quasi commoventi visto che siamo nel Cinquecento di un personaggio come Rodrigo (conteso pure lui, come amico, tra Filippo e Don Carlo). E infine la madre di tutte le partite, quella tra Stato e Chiesa, nella quale si gioca a una porta sola: a stravincere come al solito è la Chiesa dalla quale tutto dipende, anche i sovrani intronati. Praticamente è una carta d’identità di Giuseppe Verdi.
I personaggi
Carlo è don non perché è un prete ma perché è il modo con cui ai tempi che furono si chiamava qualcuno con il curriculum da vip. E lui è l’infante, principe anche se non erede diretto al trono. Non fosse abbastanza si innamora di Elisabetta e sarebbe pure corrisposto ma la Betty di cognome fa Valois e non è come chiamarsi Crippa. I Valois regnano sulla Francia e proprio in quel periodo serve qualcuno che si sacrifichi per la pace imperitura tra Parigi e Madrid e chi meglio di Elisabetta? Conclusione: la poveretta si sposa con il vegliardo, cioè Filippo, anziché col figlio, cioè Carlo, perché il matrimonio con i vecchi bacucchi nel Cinquecento è un modo come un altro per convincere i capi di Stato a interrompere le guerre “per sempre” (grasse risate). Insomma: già così per Carlo ce ne sarebbe per imprecare, invece è solo il punto di partenza dell’opera.
Il Don Carlo è però un kolossal e non gira solo intorno al triangolo amoroso di gente che si prende, si lascia, si ammazza, dinamica che comunque non guasta. La baracca non starebbe in piedi senza altri tre personaggi. Rodrigo, che di lavoro fa il marchese di Posa e combatte qua e là, consigliori del re dagli slanci ideali “progressisti” e infatti è il primo che muore. Poi la principessa d’Eboli, dama di corte innamorata marcia di Carlo e non ricambiata e quindi pronta a fare un casino che la metà basta perché gelosa col turbo quando capisce che Carlo fa il filo alla matrigna. E infine il Grande Inquisitore, vecchio vecchissimo sull’orlo della tomba, tanto da meritare la sottolineatura da libretto di “nonagenario”. Metafora di una Chiesa che non sa rinnovarsi: eppure è lui che fa e disfa, decide della vita e della morte e davanti a lui anche il re deve piegare la testa. Eboli e il pretacchione espletano, come si capisce e per usare un termine tecnico, la funzione fondamentale degli stronzi (sennò non è un thriller, non è un dramma, non è lirica, non è Verdi, non è arte, non è vita).
Primo atto
Don Carlo è nel chiostro del convento di San Giusto. Carlo si consuma come un cero ricordando quando rimase a bocca aperta e con gli occhi a pesce lesso davanti a Elisabetta e poi diventata matrigna anziché moglie. Spunta Rodrigo, amicissimo, appena tornato dalle Fiandre. E’ esaltato, gli dice: lo sai che nelle Fiandre alla gente sono partiti i cinque minuti e si sono rotti della dominazione spagnola cioè di tuo papà? Carlo è interessato, sì, ma soprattutto ne approfitta per asciugare bene bene il povero marchese con un lungo discorso sul suo amore per Elisabetta. Sì, ok, Carlo, caspita interessantissimo – gli risponde più o meno l’amico marchese – ma sentammé, prima di ammalartici, prova a venire con me nelle Fiandre che aiutiamo quei poveracci tormentati dal fanatismo religioso dell’Inquisizione e così magari non ci pensi più. Secondo lui sarebbe dovuta suonare come: cosa ne dici di un bel weekend lungo ad Amsterdam?, occhiolino.
Cambia la scena e nel chiostro ora c’è Elisabetta che passa il tempo (cosa vuoi fare quando sei regina e sei in un chiostro) quando spunta Rodrigo: posta in cassetta. Le allunga una lettera della madre, ma soprattutto un bigliettino di Carlo. Lei rimane un po’ così, sgomenta, Rodrigo le dice: eddai, concedigli due minuti. Alla fine lei accetta: Carlo parte anche benino chiedendole se lei può mettere una buona parola con Filippo suo padre: mi fai mandare nelle Fiandre con Rodrigo?, le chiede. Sì, va bene, risponde lei. Ma don Carlo non si trattiene soprattutto – va detto per onestà – a scapito della sua dignità. Comincia a dirle che il cielo è azzurro solo quando la vede, che vuole morire ai suoi piedi. Una scenata: si butta a terra, si rialza e l’abbraccia, lei lo manda a spigare, lui scappa disperato. A quel punto ecco finalmente Filippo che si ritrova da solo con Rodrigo, senza il quale il Don Carlo come già si capisce si sarebbe fermato dopo i primi dieci minuti. Il marchese pensa a una cosa sola e non è quello che ci si immagina, ‘ste cavolo di Fiandre. “Perché non concedete la libertà…”: Filippo non lo fa quasi finire nemmeno di parlare e lo avverte, guarda che il Grande Inquisitore ti ha inquadrato, stai un po’ tranquillino per favore con le tue idee alla Podemos ché siamo sempre nel Cinquecento e la democrazia perfetta non ce l’avranno nemmeno nel Duemila. Senti già che ci siamo: secondo te Carlo e Elisabetta me la fanno sotto al naso o me lo sono sognato? Me li tieni d’occhio tu?
Atto secondo
Party a Madrid, nei giardini della regina. Alla regina Elisabetta però tutto il can can viene presto a noia e chiede alla principessa d’Eboli di sostituirla con una maschera, il mantello e i gioielli. Come nei gialli di Poirot quando l’assassino diventa irriconoscibile anche per i parenti appena inforca un paio d’occhiali o si incolla una barba posticcia. Forte di questo rincoglionimento generale, Eboli fa consegnare a Carlo, che le piace così tanto, un bigliettino per incontrarsi in separata sede. Carlo è ingazzurrito perché pensa di vedersi con Elisabetta e parte con la sfrenata dichiarazione d’amore. Parla, parla, parla un po’ troppo: il momento in cui Carlo capisce che quella signora velata non è Elisabetta è anche il momento in cui Eboli capisce che le sviolinate di lui non erano destinate a lei ma all’altra. E quindi Eboli va fuori controllo. Mi vendicherò, giura, al che il marchese Rodrigo assume la solita funzione di spicciafaccende e, comprensivo, la minaccia di morte e quasi quasi la leverebbe dal mondo se il principe Carlo non si mettesse la mano sul cuore.
Altra festa, questa volta di piazza e di popolo: allegria generale e giorno da sballo perché oggi si bruciano sul rogo i condannati dal Sant’Uffizio, viva. Giornata perfetta per una piazzata: piomba sul sagrato della chiesa alla testa di un gruppo di fiamminghi e tutti si lanciano ai piedi del re Filippo per chiedergli “giustizia per la loro patria”. Filippo non se li fila nemmeno di striscio, allora Carlo gli chiede: mandami nelle Fiandre, fammi governare lì. E quello niente. Allora Carlo, finiti i tentativi con le buone, sguaina la spada davanti a tutti. Il re ordina di disarmarlo ma nessuno s’azzarda. L’unico che mette il buon per la pace, come al solito, è Rodrigo. E il dramma è rimandato.
Atto terzo
C’è Filippo da solo nel suo studio. Rimugina, parla tra sé e sé, realizzando che è un po’ una vita del menga quella del re. Come ho fatto a non accorgermi che mia moglie non mi ama, si chiede. Ora come faccio, ora come ne esco, che vitaccia. Ne esce con i consigli di quel brav’uomo del Grande inquisitore. Fuori dagli scherzi, il duetto tra Filippo e l’Inquisitore è il momento più carico di tensione dell’opera, sottolineato dall’angosciante musica quasi lugubre, “scura”. Filippo è turbato da questo quesito che si gira e rigira nella testa: se io ordino l’uccisione di mio figlio Carlo, la Chiesa come la prende? E il vecchio prelato gli risponde: non ti dice niente quella storia in cui un figlio fu sacrificato per salvare l’umanità? Eddai. Poiché a far gara a chi è più abietto il Grande Inquisitore vince sempre e così approfitta del tête-à-tête: comunica a Filippo che in questo repulisti è bene che faccia fuori anche Rodrigo perché le sue candide idee liberali anzitempo non sono benvenute. Ma come, si dispera Filippo che tiene a Rodrigo più che al figlio. L’Inquisitore non sente ragioni, anzi alla reazione del re un po’ gli girano pure. Filippo s’arrende, grande eterna metafora del rapporto che a lungo è stato tra Stato e Chiesa. “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altar”.
Nel frattempo Elisabetta si è accorta che le è sparito uno scrigno che dentro ha un ritratto di Carlo. Dov’è lo scrigno? La principessa d’Eboli, imbestialita dalla gelosia, l’ha rubato e consegnato a Filippo. E così ora il re è furibondo con Elisabetta, le dice quello che è facile immaginare, lei si difende. Arriva anche Eboli che ora è divorata dalla coscienza sporca: confessa e la regina la caccia.
Carlo finisce in prigione per tradimento, è accusato di essere un agitatore nelle Fiandre. Lo va a trovare l’amico Rodrigo e gli dice di stare tranquillo tanto si è preso tutte le colpe di una certa storia di documenti sulle Fiandre che erano di Carlo e si è tenuto lui. La conversazione è interrotta da un colpo di fucile sparato alla schiena del marchese: uno dei due che ha organizzato l’attentato ha la divisa del Sant’Ufficio, tanto per non lasciare niente al dubbio. Morendo (ci mette un po’, da pieno immaginario lirico), Rodrigo fa in tempo a dire al principe che Elisabetta lo aspetta l’indomani al convento (naturalmente fino all’ultimo gli ricorda la questione fiamminga). Filippo arriva per scarcerare il figlio, ma lui lo tratta malissimo, “Rodrigo si è sacrificato per me ed è colpa tua”. Il re piange ma sono lacrime a tempo scaduto: alla porta c’è chi annuncia una rivolta per la liberazione di Carlo. Filippo esce convinto di rimettere a posto i ribelli e quelli invece fanno capire di aver perso qualsiasi rispetto per lui. All’ombra di chi, sotto il cappello di chi, con il determinante contributo di chi il re riesce a mantenere il potere? Del nonagenario: l’Inquisitore si palesa e il popolo torna a cuccia e con la coda tra le gambe.
Atto quarto
Ed eccoci all’incontro finale imbastito prima di morire da Rodrigo. Elisabetta prega alla tomba di Carlo V, la buon’anima del padre di Filippo. Arriva anche don Carlo e anche lei gli dice: vai nelle Fiandre, così le idee di Rodrigo ecc eccetera e soprattutto “dimenticami di me”. Lui le risponde “ok ci rivediamo in cielo” che non è un grande appuntamento. Sarebbe un lieto fine ma non sarebbe Verdi. Piombano Filippo e il Grande Inquisitore che ormai sono coppia di fatto e accusano Carlo di tradimento. Lui indietreggia verso la tomba del nonno, la tomba si apre, spunta un frate che forse è proprio il nonno forse no forse il suo fantasma chissà e avvolge il povero don Carlo nel mantello e lo trascina con sé. “Solo in cielo si può trovare pace” dice: qui non c’è grande bisogno di spiegazioni.