L'emendamento introduce una nuova disparità di trattamento per una piccola platea
Alla fine la “correzione” ipotizzata già pochi giorni dopo l’invio della manovra al Parlamento e annunciata a intervalli regolari da diversi ministri si è concretizzata. Il governo Meloni ha deciso di fare parziale marcia indietro sulla modifica ai generosi criteri di calcolo delle pensioni di dipendenti degli enti locali, sanitari, insegnanti di asilo e scuole elementari paritarie e personale degli uffici giudiziari. La stretta, dice l’emendamento depositato giovedì sera, non varrà per coloro che attenderanno il trattamento di vecchiaia, uscendo quindi a 67 anni di età, e per quanti maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2023. Per i soli medici ospedalieri e infermieri, che anche per questo hanno scioperato oltre a minacciare addii anticipati per evitare la “scure”, arriva poi un’ulteriore salvaguardia: il taglio ci sarà, ma verrà ridotto di un trentaseiesimo per ogni mese in più di permanenza al lavoro. Un contentino che punta a trattenere in attività una categoria esasperata dagli enormi carichi di lavoro e dalle carenze di un sistema impoverito da anni di investimenti insufficienti. Ma lo fa introducendo una nuova disparità di trattamento per una piccola quota di quella platea di dipendenti pubblici che oggi, a fine carriera, gode a parità di contribuzione di assegni più alti rispetto agli altri.
Come funziona oggi – Parliamo, appunto, degli iscritti a Cassa per le pensioni dei dipendenti degli Enti locali (Cpdel), dei sanitari (Cps), degli insegnanti di asilo e di scuole elementari parificate (Cpi) e degli iscritti alla cassa degli ufficiali giudiziari, aiutanti ufficiali giudiziari e coadiutori (Cpug). Se hanno iniziato a lavorare prima del 1996 e ricadono dunque nel sistema di calcolo “misto” della pensione – retributivo per i contributi versati prima di quella data e contributivo per quelli successivi – ai loro primi 15 anni si applicano aliquote di rendimento molto vantaggiose introdotte nel 1965 (1986 per gli ufficiali giudiziari) e mai modificate. Il primo anno di carriera, per loro, conta per ben il 23,8% della retribuzione pensionabile. Poi l’aliquota sale lentamente e già con tre anni di contribuzione pre 1996 arrivano a maturare il 25,1% della retribuzione pensionabile: più dell’8% annuo contro il 2% fissato nel 1992 per tutti gli altri dipendenti pubblici e privati. Al quindicesimo anno l’aliquota tocca il 37,5%. Con 40 anni di contributi si arriva infine a maturare il 100% dell’importo dell’ultimo stipendio.
La prima versione della manovra – Il governo aveva deciso di ridimensionare (senza eliminarla del tutto) questa discrepanza di trattamento, sopravvissuta a tutte le riforme pensionistiche e notevolmente costosa, azzerando l’aliquota in corrispondenza di un’anzianità zero e facendola poi aumentare progressivamente, fino a raggiungere comunque il 37,5% al quindicesimo anno di lavoro. Con risparmi cumulati per 21,4 miliardi nei prossimi 19 anni. L’Ufficio parlamentare di bilancio, nel valutare gli effetti della decisione, aveva evidenziato che i lavoratori più vicini alla pensione – quelli con più di 15 anni di anzianità sotto le vecchie regole retributive – non sarebbero stati toccati dalla misura, mentre la riduzione pro capite della pensione sarebbe stata crescente al diminuire degli anni maturati sotto il regime retributivo.
Nel 2025 il sacrificio medio lordo sarebbe stato di 619 euro annui per i 72.900 neo pensionati ex iscritti alla Cassa per le pensioni ai dipendenti degli Enti locali, 700 per i 1.000 iscritti alla Cassa insegnanti di asilo e scuole paritarie, 1.333 per i 300 iscritti alla Gestione degli Ufficiali giudiziari e 2.767 euro per i 7.300 iscritti alla Cassa per le pensioni dei sanitari, i professionisti con gli stipendi più alti. Un taglio evidentemente doloroso ma corrispondente a piccole percentuali della pensione annua lorda, stando ai calcoli dell’Upb: 3,6% per i medici, 2,3% per i dipendenti locali, 4,8% per gli ufficiali giudiziari. “Sacrifici confrontabili con quelli richiesti ai pensionati con assegni di importo compreso tra cinque e sei volte il minimo attraverso la modifica del sistema di indicizzazione”, commentava l’organismo indipendente presieduto da Lilia Cavallari. Nel quadriennio 2024-2028 i circa 250mila coinvolti avrebbero subito una riduzione media non oltre il 4%, “in molti casi restandone significativamente al di sotto”. L’impatto sarebbe aumentato per chi si fosse pensionato dopo il 2028. L’Upb giudicava “concreta” la possibilità di un ricorso alla Consulta sulla legittimità della norma ma “remota” l’ipotesi di un “anticipo massivo delle scelte di pensionamento per evitare la misura” come quello prospettato dai sindacati.
L’emendamento del governo – Nella tarda serata del 7 dicembre il governo ha però presentato l’atteso emendamento che cambia ancora le cose. Il privilegio delle maxi aliquote resta immutato per tutti i dipendenti delle categorie viste sopra che vanno in pensione di vecchiaia. Chi esce prima, perché ha raggiunto sufficienti anni di contribuzione, sarà invece penalizzato come previsto nella versione iniziale. Ma per medici e infermieri arriva la possibilità di azzerare il taglio restando in attività per tre anni in più. Solo per loro, la categoria numericamente più ridotta tra quelle colpite dalle nuove misure. Il ripensamento riduce di molto i risparmi attesi dalla stretta, pari inizialmente a 21 miliardi in meno cumulati al 2026. Il governo corre ai ripari con un ulteriore allungamento delle “finestre”, cioè i mesi di attesa tra maturazione dei requisiti e arrivo del primo assegno. Questo, peraltro, varrà per le pensioni anticipate di tutti i dipendenti pubblici aderenti alle quattro casse.