Luka Doncic, un talento sincero
Questa notte, ha letteralmente distrutto gli Utah Jazz con una tripla-doppia di portata storica (40 punti, 11 assist, 10 rimbalzi, con 6/12 da tre). Era talmente ispirato, che dava l’impressione (impressione?) di poter minacciare la difesa non appena ricevuta la rimessa di fondo anche a gioco fermo. In generale, si può discutere all’infinito sul suo stato di forma. Si può discutere sull’efficacia del suo stile di gioco che tende a dominare così tanto la palla (e spezzare il ritmo dei compagni) durante i playoff, quando si inizia a difendere per davvero. Sulla sua applicazione in difesa in situazioni di gioco meno dinamiche. E non è che sia sempre così edificante il suo lamento continuo contro gli arbitri dopo qualsiasi penetrazione. Tuttavia, ci sono tutti i segnali che sembrano fare dell’attuale stagione di Luka (se portata avanti in questo modo) forse la migliore in carriera, almeno a livello individuale (31.8 punti di media con 8.5 rimbalzi e 8.6 assist, tirando da fuori con quasi il 40%). Il basket di Luka Doncic è un basket lineare. Non semplice, attenzione, si rischia di banalizzarlo. Lineare, con pochi fronzoli, molto diretto, molto sincero. E i fronzoli che ha, perché ci sono, sembrano sempre scorrere via in modo naturale, mai forzato. Come quando è stato visto servire un compagno con un passaggio-schiacciato con un effetto verso l’esterno impresso dal solo movimento di polso e polpastrelli (roba alla Pete Maravich, per intenderci). Estremamente spettacolare. Luka ha dei fondamentali di gioco di una tale cristallinità, che accecano gli osservatori. Ecco perché, senza essere un vero e proprio fulmine sul primo passo, nessuno riesce ad afferrarlo. Il suo step-back è un’arma micidiale perché l’ultimo palleggio è sempre fatto nella posizione perfetta per caricare il tiro. La penetrazione è al ferro, perché l’angolo del suo corpo copre perfettamente la palla dalle grinfie dei difensori in area. Se va a sinistra sul pick and roll centrale, poi, il tagliante in alley-oop lo trova pure bendato, perché gioca in controllo, temporeggia in palleggio (un maestro nel frapporsi fra il difensore e il canestro dentro la lunetta), osserva i movimenti e decide cosa fare. Però i Mavericks, con lui, Irving, Dereck Lively II (il rookie che sembra la reincarnazione di Kenyon Martin in maglia Nets) sono “solo” quinti a Ovest (60% di vittorie). E questo, signore e signori, fa un po’ riflettere.
Una “tragedia” in salsa Pistons
Sono anni ormai che tentano di ricostruire. Poi inizia la stagione e sono sempre al punto di partenza. Qual è il tema? Nessuno lo sa, ma qualche ipotesi si può buttare giù. Cade Cunningham, la prima scelta del Draft del 2021, probabilmente non è stato “costruito” per essere un primo violino. Non ci si lasci ingannare dalla media punti (22 a partita), che non è male. Ha punti nelle mani, ma gioca con scarsa efficienza. Tira dal campo con appena il 41% e da tre con il 34%. Perde più di 4 palloni a partita. In generale, non dà mai la sensazione di potersi prendere la squadra sulle spalle. I Pistons tirano male da fuori e questo crea un intasamento dell’area senza precedenti, perché la difesa ci pensa due volte prima di marcare faccia a faccia un giocatore sul perimetro. Jaden Ivey, quinta scelta del 2022, sembra essere regredito rispetto alla stagione da rookie. E non si sta parlando solo delle cifre, ma del modo in cui sta in campo. Sembra timido, timoroso, quasi spaventato, dopo che la scorsa stagione aveva fatto comunque vedere una buona capacità e faccia tosta quantomeno per attaccare il ferro. Buone pedine sono Ausar Thompson (quinta scelta allo scorso Draft), potenzialmente (è bene ripeterlo… potenzialmente) candidato a diventare uno dei migliori difensori della lega nelle prossime stagioni, per mobilità laterale, comprensione degli angoli difensivi e applicazione sulla palla, ma è davvero troppo, troppo, troppo indietro al tiro (14.6% da tre… ripeto… 14.6% da tre). Oppure Jalen Duren, che è molto mobile e veloce per essere un centro, e ha una buona mano nei pressi del canestro, ma non ha la minima traccia di un qualsivoglia tiro da fuori (praticamente non ha mai tirato). Ah, c’è anche Bojan Bogdanovic, che tenta di fare quello che può. Giocatore in grado di mettere punti a referto, che tendenzialmente funziona (e può dare una mano) come uomo dalla panchina in sistemi di gioco meno caotici. C’è perfino Joe Harris, ormai l’ombra del grande tiratore visto ai Brooklyn Nets qualche stagione fa. Il resto poca roba, per una squadra che ha “accettato” di mettere nel roster gente alla frutta come Marvin Bagley III (che avrebbe funzionato come ala-forte forse negli anni ’90) o James Wiseman, l’abbaglio dei Golden State Warriors (che non avrebbe funzionato come centro nemmeno negli anni ’90). Così Detroit è ultima a Est (2 vinte e 19 perse) e il futuro non sembra roseo. Una “tragedia” sportiva.
That’s all Folks! Alla prossima settimana.