“Non siamo cattivi, abbiamo fatto del nostro meglio per aiutare quelle persone”. “Non è stato facile andarsene: ti tengono stretto lì dentro, perché non hanno personale”. “Dopo quell’esperienza sono ancora sotto Xanax, ma tornerei solo per aiutare quei ragazzi”. Sarà la bassa età media, sarà l’alta dose di empatia, fatto sta che i racconti di chi ha lavorato al Cpr di via Corelli a Milano e ha accettato di confidarsi con ilfattoquotidiano.it seppure in forma anonima, sono tutti diversi e originali, ma accomunati dalla convinzione di aver fatto il massimo per i cosiddetti trattenuti, i detenuti nei centri per il rimpatrio. Chi parla in alcuni casi è stato tra i protagonisti delle segnalazioni sulla gestione del centro che sono andate inascoltate in questi anni e che sono tornate di attualità in seguito alla notizia, la scorsa settimana, dell’indagine della procura di Milano sul Cpr,
Addirittura chi è venuto via da poco si sente offeso per la parte delle accuse degli inquirenti milanesi che riguarda la qualità dei servizi e dell’assistenza (“è un lavoro pesante, brutto sentirsi attaccati”). Mentre chi ha già messo un po’ di tempo tra se stesso e via Corelli, si concede di ammettere di aver faticato ad andarsene sia per le pressioni ricevute, che per il fatto di essersi sentito indispensabile. “Non hanno personale e ancora meno personale specializzato, quindi alle poche persone che riescono ad agganciare fanno fare un po’ la qualunque, con ruoli non ben delineati: entri che dovresti fare l’assistente sociale, lo psicologo o il medico e invece ti ritrovi ad accendere sigarette, pulire il sangue con acqua ossigenata e così via”, è il racconto di una giovane donna che ha prestato servizio nella struttura. “C’era una sorta di paura ad andarsene, perché ci veniva raccontato che non solo non saresti stato pagato, ma che avresti anche dovuto risarcire il Cpr e in più avresti rischiato una denuncia penale per una sorta di abbandono del posto di lavoro con un atto di negligenza”.
Ma non solo. “Ci eravamo convinti di poter fare qualcosa per le persone che erano lì dentro e allora ci chiedevamo: se ce ne andiamo chi chiama l’ambulanza? Chi discute e combatte con questi (i capi, ndr)? Chi chiede un tso? Chi dice di no? Chi fa sentire la voce di questa gente là fuori?”. Il racconto della donna parla di una nave dalla quale i medici della prima ora hanno preso il largo abbastanza rapidamente, mentre gli infermieri sono arrivati al punto da coprire i turni solo restando in struttura per diversi giorni di fila. “Così c’erano, ma era come se non ci fossero. Man mano i turni infermieristici e dei medici hanno iniziato ad essere scoperti e molti neo assunti non restavano più del primo giorno, così la struttura faceva ricorso per tutto all’Agenzia di tutela della salute (Ats). A un certo punto lo psicologo ha preso il posto di tutti: faceva amministrazione, scriveva i dosaggi dei farmaci, eccetera”.
E alla collega che ritiene che l’erogazione dei servizi sia nella norma, manda a dire che “devi avere degli standard per capire se le cose sono fatte bene o no. Devi avere un occhio professionale, se non ce l’hai potresti farti plasmare”. Un esempio? “Molti operatori, cioè tuttofare, erano stranieri che parlavano più lingue, prestandosi così al ruolo di interprete, ma non si trattava né di mediazione culturale né di mediazione linguistica, cioè si andava sulla fiducia ma non c’era nessun obbligo professionale di terzietà e verità della traduzione”.
Un altro esempio sono le pulizie: l’organizzazione del lavoro prevede che l’erogazione del servizio venga effettuata dalle 8 alle 15, il che semplifica la contrattualistica, ma non le condizioni igieniche: “Dopo un po’ che è stata fatta l’ultima pulizia è di nuovo uno schifo”, racconta una ex dipendente che spiega come gli spazi dei trattenuti siano divisi in settori da 24 persone l’uno in una struttura “che è quello che è, costruita per evitare oggetti contundenti, quindi è tutto molto ridotto all’osso”. Le stanze, spiega, sono di circa 15 metri quadrati e ospitano 4 letti, poi ci sono i bagni, un’area comune e un cortile esterno. “Solo gli addetti alle pulizie hanno accesso al dormitorio. Ci sono corridoi lunghissimi da un lato e dall’altro ci sono i dormitori con i servizi igienici. Quando è l’ora della somministrazione delle terapie l’infermiere si avvicina alla porta con il carrellino, la guardia apre la porta e chiama: ‘738 la terapia, 434 …’ Li chiamano per numero con la scusa che i nomi sono impronunciabili. La guardia controlla a vista”, spiega la prima collega. “Si incazzavano con me perché li chiamavo per nome”, si inserisce una terza ex addetta secondo la quale il colloquio di assunzione era stato prevalentemente incentrato sui divieti, il principale dei quali era “vietato parlare”.
E loro, i trattenuti, chi sono? Su questo punto il racconto è pressoché unanime. “Sono persone che stavano sul territorio italiano da parecchio e avevano famiglia e amici. Ma c’erano anche altri non integrati che stavano in strada da anni, persone con dipendenza da farmaci e droghe, tanti disperati con tanti disturbi e palesi deficit cognitivi. Parecchi venivano dal carcere di Bollate, avevano scontato la loro pena, fatto dei corsi di formazione, dei laboratori. Che senso ha buttarli nel Cpr? Loro sapevano che sarebbero stati scarcerati e si sono trovati rinchiusi in via Corelli, dove stavano tutto il giorno senza fare niente”, dice la prima.
Unanime anche il racconto sugli stipendi. “Finché sei dentro ti pagano regolarmente, dove regolarmente significa 30 giorni dopo la fine del mese lavorato per i dipendenti e tre mesi per le partite Iva. Quasi tutti quelli che se ne sono andati non hanno ricevuto né l’ultimo mese né il tfr. Si lavorava tanto e quindi si guadagnava tanto, ma la paga oraria era intorno ai 7 euro”, dice una, mentre l’altra sintetizza: “Non erano condizioni di lavoro in cui si poteva dare un servizio consono”.
D’altro canto il gestore, prima sotto il cappello di Engel e poi sotto quello di Martinina, aveva accettato di prendere dallo Stato solo 40 euro per detenuto, 5 euro in meno della base d’asta, per un totale di circa 1,2 milioni di euro l’anno. Da qualche parte i conti andavano fatti tornare, dev’essere stato il ragionamento. Poco conta se nel mezzo ci sono state segnalazioni di ogni genere che in questi anni sono andate per lo più inascoltate anche da parte dell’autorità sanitaria, mentre solo lunedì 4 dicembre il consiglio Comunale di Milano si è espresso per la chiusura del centro. Il giorno di Sant’Ambrogio, fuori dal Teatro Dal Verme, è poi andata in scena la distribuzione dei Corellini d’oro, parodia degli Ambrogini, la benemerenza che la città conferisce ogni anno a cittadini ritenuti meritevoli il giorno del suo Santo patrono.