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Gaza, morto sotto le bombe Refaat elAreer: poeta e accademico, aveva fondato l’associazione We are not numbers

“Noi non siamo numeri”. E’ la denuncia che arriva da qualsiasi teatro di guerra, in cui le vittime perdono i nomi, diventando solo la cifra di un bilancio. Consapevole di questo, nel 2015, Refaat al Areer, poeta, professore all’Università Islamica di Gaza, morto giovedì – insieme a suo fratello, sorella e quattro bambini – a causa di un bombardamento israeliano, fonda insieme ad altre realtà l’associazione WANN: We Are Not Numbers. L’intento è quello di “raccontare le storie delle vittime in zone di conflitto”, attraverso l’organizzazione di laboratori di scrittura.

Al Areer, ucciso all’età di 44 anni, aveva curato il volume Gaza Writes Back: Short Stories from Young Writers in Gaza, Palestine, una raccolta di testi scritti in inglese da scrittori della Striscia. Ed era autore del libro Gaza Unsilenced.

Oltre alla scrittura e l’insegnamento, alAreer aveva affiancato l’attivismo mediatico, specialmente dopo l’inizio dell’invasione della Striscia. In un suo recente video pubblicato su X, aveva raccontato di vivere in “una situazione desolante”. E aveva denunciato: “Non abbiamo nemmeno l’acqua. Ho solo la mia penna”. Concludendo il filmato domandando: “Cosa vuole Israele da noi? Vuole che ci suicidiamo in massa? Non lo faremo”.

Sui social sono stati centinaia i messaggi di cordoglio rivolti all’accademico palestinese ucciso. Ma a fare scalpore, almeno nelle ultime ore, sono le immagini, diffuse dall’esercito israeliano, in cui si vedono centinaia di uomini bendati seduti a terra. Per l’IDF sarebbero miliziani di Hamas che si sono arresi. Mentre da Gaza denunciano che quei prigionieri, lasciati in mutande e canottiera, sono civili. Nei fotogrammi diffusi, “si vede anche il nostro giornalista, Diaa al Kahlot” denuncia il giornale panarabo al Araby Al Jadeed. Per il quotidiano, il collaboratore sarebbe stato arrestato dall’esercito israeliano nella strada del mercato, a Beit Lahia, durante una campagna di rastrellamenti. Insieme a al Kahlot – continua al Araby el Jadeed, “sarebbero stati portati via, verso una destinazione sconosciuta, anche sui fratelli e altri civili”.

“L’esercito di Tel Aviv – ha dichiarato il caporedattore di Al Araby Al Jadeed, Hossam Kanafani – prende di mira, con arresti o uccidendoli, i giornalisti”. L’obiettivo, secondo il giornalista, è di “impedire che documentino i crimini dell’IDF”. E ha concluso: “Faremo ogni sforzo possibile, in collaborazione con le istituzioni e le organizzazioni internazionali interessate ai diritti e alla libertà dei giornalisti nel mondo, per scoprire dove si trova il nostro collega Diaa e per farlo rilasciare il prima possibile”.

Dall’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, cominciata ad ottobre, i morti sarebbero oltre 17.000. I feriti 46.000. Oltre un milione e mezzo gli sfollati. L’aggravarsi della situazione ha spinto il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a chiedere al Consiglio di sicurezza l’uso dell’articolo 99 della Carta per “invocare un urgente cessate il fuoco” e così “scongiurare il drammatico collasso del sistema umanitario”. Il diplomatico lo ha scritto anche in un post su X, chiarendo che è la prima volta dalla sua investitura, nel 2017, che invoca tale articolo, che dà al segretario generale il potere di “richiamare l’attenzione del Consiglio di Sicurezza su qualunque questione che, a suo avviso, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”.