Se un dipendente è inefficiente, la colpa (non la responsabilità) è dell’ufficio gestione risorse umane che ha sbagliato qualcosa nel processo di selezione; se il tasso di turnover del personale è patologico, l’errore (non la responsabilità) è di “quelli del personale” che non hanno attuato politiche di engagement adeguate; se il piano ferie è organizzato male, la scelleratezza (non la responsabilità) è degli addetti all’ufficio Risorse Umane che non hanno realizzato il giusto coordinamento tra le varie funzioni… e così via.

Potrei citare tanti altri bias del genere per evidenziare un mood che, dopo 25 anni di management in una multinazionale del credito, ho ritrovato anche, laddove esista una unità organizzativa HR, nelle piccole imprese: ci piace detestare i capi del personale, i manager del settore HR, un sentimento non nuovo che è trasversale in tutti i tipi di aziende. Un vero e proprio paradosso, a ben pensare. Perché se le persone sono la vera risorsa per competere e vanno, come si dice sempre, messe al centro dell’azienda, perché poi gli specialisti che le devono trovare, reclutare, gestire e sviluppare costituiscono spesso una funzione ancillare, relegata spesso a mera gestione amministrativa (rilevazione delle presenze/assenze, costruzione della busta paga, ecc.) e accuratamente tenuta lontana dal vertice dell’organizzazione?

Che non tutti i responsabili del personale si siano evoluti in sintonia con le esigenze e i cambiamenti è certo una realtà, ma non è giunto il momento di una ampia riconsiderazione, soprattutto in quelle piccole realtà che ancora affidano la gestione delle risorse umane ai consulenti del lavoro (che hanno altre specifiche professionalità e funzioni), del ruolo delle HR in azienda; della costruzione di una funzione e di un ruolo più coerenti con l’obiettivo prioritario di esaltare l’importanza delle persone, in primis i talenti; dell’avvicinare il responsabile HR alla stanza dei bottoni e di neutralizzare quella contraddizione che porta danni a tutti? Certo questo comporta ripensare il ruolo delle persone e le relative competenze e credo che sul ricorrente (e un po’ stucchevole) tema del ruolo “strategico” dell’HR, alcune riflessioni complessive vadano fatte contestualizzandole al mondo globalizzato e volatile in cui ci troviamo a vivere oggi. La centralità del capitale umano pone inevitabilmente una grossa sfida/opportunità per chi di persone si occupa di mestiere, il nostro professionista HR.

Tralasciando le elucubrazioni d’antan della professione (ragionano di casta, è un covo di spie e pettegolezzi, ecc…), vorrei guardare avanti facendo alcune riflessioni su cosa l’HR dovrebbe (e potrebbe) fare e su quali competenze siano necessarie per farlo bene. Innanzitutto occorre collegare fortemente il bagaglio professionale degli HR manager al business dell’azienda dove si opera: non si gestiscono le persone solo secondo “buone pratiche” generali. Basta con la solita fuffa delle skills relazionali necessarie per svolgere il mestiere. Queste certamente servono, se applicate allo specifico contesto competitivo, spesso globale, del proprio settore. Ma tale necessario collegamento rende più credibile, agli occhi del vertice e dei colleghi, il reale valore aggiuntivo che la funzione HR può dare, evitando così l’isolamento (non tanto splendido) in cui talora l’HR viene a trovarsi. Per esempio, il grosso problema della motivazione dell’engagement (oggetto di numerose indagini internazionali) non va affrontato con soluzioni generali buone per tutti, ma con interventi ritagliati sui casi specifici (divisione, stabilimento, gruppo di lavoro) che risolvano i problemi reali e ben definiti. Solo così l’HR può contribuire con un proprio valore aggiunto al successo del business.

In secondo luogo è necessario ormai tradurre in numeri e dati leggibili da tutti anche i risultati ottenuti nella gestione delle persone: tasso di attrazione, tasso di ritenzione, anzianità aziendale media, sistemi di valutazione e di incentivazione delle prestazioni. Solo così si riesce a rendere equivalenti il management delle risorse umane a quello del settore amministrativo-finanziario, commerciale e tecnico. Naturalmente tutto questo è subordinato a due condizioni: che si abbiano le competenze basiche (non specialistiche) di business, di finanza etc., tipiche di un manager a tutto tondo; che si abbia la voglia (e la forza) di assumersi i rischi, uscendo dal proprio ristretto ambito specialistico.

La prima condizione è più semplice da realizzare: basta aggiornarsi. Per la seconda occorrono altre doti che non si imparano nei corsi: il coraggio e la voglia di mettersi in gioco vanno verificate con professionalità al momento della selezione. E il successivo corollario è che, per fare ciò, il responsabile HR deve avvicinarsi al Ceo ed essere posto in una posizione di vertice che, analogamente a quanto è storicamente stato fatto con molti Cfo (direttori Finanza), gli consenta di svolgere questo sempre più rilevante ruolo. Il suggerimento è addirittura di creare un G3, ossia un comitato di vertice che unisca il Ceo con Cfo e Chro in un efficace organismo di conduzione dell’organizzazione.

Il mondo sta cambiando, tutti noi stiamo cambiando, e la nostra cultura sta cambiando. Anche l’HR deve cambiare prontamente e non limitarsi ad accompagnare, ma essere in prima fila a condurre la trasformazione in atto.

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