Mentre il sultano al-Jaber continua a impegnarsi in annunci e a sostenere che “il fallimento della Cop 28 non è un’opzione” e i paesi vulnerabili sono scontenti di quanto fatto finora per l’adattamento climatico, in queste ore si stanno definendo le alleanze tra i Paesi. Dall’incontro di consultazione con la Presidenza emiratina, alla messa a punto della quarta bozza del Global Stocktake, il documento di bilancio dei piani nazionali di taglio dei gas serra, i punti chiavi restano l’eliminazione di tutti i combustibili fossili (l’opzione a cui puntano i Paesi più ambiziosi, ma soprattutto quelli più vulnerabili) o la loro riduzione e l’utilizzo o meno delle tecnologie di abbattimento delle emissioni, come la cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica. Il tutto con l’aiuto di efficienza energetica e rinnovabili. E poi c’è la questione dei riferimenti all’equità e alla giusta transizione chiesta dai Paesi in via di sviluppo, in primis l’India, ma che poco piacciono a Stati Uniti ed altre economie più forti. La Cina, maggiore emettitore di gas serra al mondo e ostacolo da sempre sulle fonti fossili, sembrava fosse disposta al compromesso (più di quanto non lo sia l’India rispetto al carbone), ma durante i negoziati è venuta fuori la volontà di accordarsi su un linguaggio che indichi più lo sviluppo delle rinnovabili in sostituzione delle fonti fossili. La Russia potrebbe cedere e, in questo, potrebbe influire il fatto che la prossima Cop si terrà in Azerbaigian, il terzo petro-Stato di fila ad ospitare la Conferenza delle Parti sul clima. Ma l’Arabia Saudita oppone resistenza sulla “eliminazione graduale” del petrolio e gli Emirati Arabi dovranno definitivamente scoprire le carte. L’uscita dai combustibili fossili è chiesta da oltre 100 Paesi della High Ambition Coalition. “L’Italia ne ha preso parte fin dall’inizio, nel 2015, ma non vi sono più notizie di un suo coinvolgimento negli ultimi 12 mesi” fa notare il think tank italiano Ecco.
L’accordo sui combustibili: chi è ancora fuori – Il momento della verità si avvicina, non solo per Roma. Nelle prossime ore si capirà se per al-Jaber è più importante far passare la Cop 28 alla storia o rimanere in asse con l’Arabia Saudita, tra l’altro andando incontro a quanto chiesto nelle lettere inviate dall’Opec. L’inviato speciale per il Clima di Pechino, Xie Zhenhua, ha ricordato l’esito dell’incontro con gli Stati Uniti prima della Cop 28, in seguito al quale le due potenze si sono impegnate per lo sviluppo “dell’energia rinnovabile nelle rispettive economie fino al 2030” in modo da “accelerare la sostituzione della produzione di carbone, petrolio e gas”. E proprio su questo concetto di “sostituzione” Pechino punterebbe, al posto di un linguaggio esplicito sull’eliminazione dei combustibili fossili. La Cina già condivide con l’India il peso dello storico accordo saltato alla Cop 26 di Glasgow sull’eliminazione graduale del carbone che, nel documento finale, fu solo “riduzione graduale”. E tuttora il carbone è un problema enorme. Ma se Pechino conta di ridurre la produzione dal 2025, l’India (secondo produttore al mondo dopo la Cina), vuole triplicare la produzione dalle miniere sotterranee, arrivando a 100 milioni di tonnellate entro il 2030 per far fronte alla domanda di energia. D’altronde gli Stati Uniti, ma anche il Regno Unito, pur avendo dato segnali forti contro il combustibile fossile più inquinante, continuano ad espandere la produzione di petrolio e gas.
L’ambizione più alta per alcuni è solo una facciata – Eppure l’uscita dai combustibili fossili è chiesta da 115 Paesi della High Ambition Coalition, lanciata nel 2015 da Costa Rica, Francia e anche Regno Unito. “L’Italia ne ha preso parte fin dall’inizio, nel 2015, ma non vi sono più notizie di un suo coinvolgimento negli ultimi 12 mesi” racconta Ecco, spiegando che proprio su questo fronte potrebbe arrivare un “segnale politico e diplomatico forte” dal ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin e la viceministra Gava, tornati a Dubai. Nel frattempo, i Paesi Bassi hanno lanciato una coalizione per eliminare i sussidi ai combustibili fossili. È stata firmata anche da Antigua e Barbuda, Austria, Belgio, Canada, Costa Rica, Danimarca, Finlandia, Francia, Irlanda, Lussemburgo e Spagna. Non ne fanno neppure Usa, Ue, Germania. E non ne fa parte l’Italia. D’altronde risale a pochi mesi fa la pubblicazione di uno studio del Fondo monetario internazionale, secondo cui i sussidi alle fonti fossili continuano ad aumentare e sono arrivati (il dato è aggiornato al 2022) a 63 miliardi di dollari, oltre mille dollari per ogni cittadino italiano. Sempre nel 2022, il sostegno finanziario pubblico ai combustibili fossili, sotto forma di sussidi, investimenti da parte di imprese statali e prestiti da parte di istituzioni finanziarie pubbliche, ha superato la cifra record di 1.700 miliardi di dollari a livello globale.
Il braccio di ferro – Forse è anche guardando alla poca volontà da parte dei paesi ricchi di cedere rispetto ai propri interessi e alle alleanze che rischiano di rimanere una scatola vuota che un blocco di venti nazioni punta i piedi sul fatto che si rispetti il principio di equità e di responsabilità comuni ma differenziate sanciti dall’accordo di Parigi e dalla convenzione Unfccc. Certo ci sono Paesi come Arabia Saudita, India e Cina che hanno spesso strumentalizzato questi principi, ma ce ne sono anche altri, con storie e bisogni diversi, come Ecuador, Siria, Sudan e altri. E c’è un altro aspetto su cui i paesi più vulnerabili non sono più disposti a fare passi indietro: i finanziamenti per l’adattamento. E c’è forte preoccupazione per gli scarsi progressi fin qui compiuti a Dubai. Il Programma ambientale delle Nazioni Unite ha dichiarato, a novembre, che nel 2021 sono stati forniti solo 21 miliardi di dollari a fronte di una necessità che va da quasi 200 a 387 miliardi di dollari all’anno. Finora, alla Cop 28, sono stati raccolti contributi per appena 165 milioni di dollari, la metà dell’obiettivo del Fondo di arrivare a 300 milioni entro fine 2023.