Da lunedì 11 su Sky Tg24, alle 21, la voce del basket di Sky racconta le "strategie della paura". Otto episodi che spaziano dal 1878 fino ai giorni nostri, in una rilettura critica di una stagione in cui, dice, "chi voleva attaccare il potere lo ha rafforzato, in un portentoso caso di eterogenesi dei fini"
Una ricostruzione grandangolare, uno sguardo ampio per provare a vedere dentro il buco nero. Lì dentro sono finiti almeno quattro decenni di storia contemporanea e molti pezzi non sono ancora riemersi. Quel buco che “più vai a guardarlo da vicino e meno capisci dove metterlo per comporre il quadro di insieme”. Da quel buco – un vero e proprio cratere – creato dalla gelignite dentro la Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, parte l’ultimo fuoricampo di Flavio Tranquillo, voce del basket di Sky. E spazia avanti e indietro nella storia per provare a fornire un quadro esaustivo di fatti che compongono “un passato che non passa perché lo abbiamo rimosso e non elaborato”. Da lunedì 11 su Sky Tg24 alle 21 Tranquillo ritorna in ambienti che ha già frequentato (nel 2013 pubblicò I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità con Mario Conte, giudice che fu tra i togati che condannarono Marcello Dell’Utri) e lo fa con un programma ambizioso, Il Buco nero, appunto: otto puntate – due episodi alla volta, incentrati su parole-chiave e non su singole vicende – che resteranno disponibili on demand e in versione podcast su tutte le principali piattaforme.
Qualcuno si chiederà perché dal basket alle vicende più intricate nella storia contemporanea del Paese?
Perché è la domanda più importante, tanto è vero che i bambini se la pongono compulsivamente. Dire perché uno che parla di pallacanestro si mette a parlare di queste cose è facile: perché c’era mentre succedevano ed è stato superficiale e indifferente, per cui ha un senso di colpa. E poi perché la materia è così ostica che ci vuole una molla, come 8 episodi da produrre, per misurarsi con la sua complessità, e qualsiasi sportivo ha il senso della sfida in sé. Perché è successo tutto questo è invece una domanda ben più ardua. Evidentemente non lo saprete da “Il Buco nero”, che però già dal titolo evoca la profondità della materia. Troppe volte si è cercato di dare la spiegazione, che poi diventa quasi sempre una spiegazione. Invece ci sono “enne” spiegazioni, che non si escludono affatto a vicenda.
Il Buco Nero non da risposte, non è un’inchiesta, non svela segreti né ipotizza piste. Quindi cosa è questo prodotto?
È molto umilmente l’esercizio della professione giornalistica al servizio di chi non ha tempo e modo di approfondire un tema articolato. Per giungere a qualsiasi conclusione, è necessario che le premesse siano corrette, o perlomeno condivisibili. Qui le premesse sono i fatti, cioè gli effetti. Interpretare da quali cause vengano è un esercizio di rara fallibilità, ma ci sono persone – storici, giornalisti, magistrati, familiari delle vittime – che ne hanno fatto una ragione di vita. Mettere a disposizione della collettività una sintesi ragionata di questo patrimonio mi sembra un punto di partenza migliore che non affidarsi solo alla memorialistica o alla pubblicistica, pur utili a loro volta.
Parla di diritto e dovere di comprendere. Quanto c’è del giornalista e quanto del cittadino ne Il Buco nero?
Le due prospettive sono comunque inestricabili, per cui non sono in grado di stabilire la ripartizione. Se questo lavoro ha un valore, e non ne sono sicuro, è che è sviluppato da un giornalista che si è sempre occupato di cose frivole, ancorché bellissime, e un cittadino sciagurato che, attirato da quelle cose frivole e bellissime, non ha dato il giusto peso a un fenomeno di eccezionale rilevanza e gravità.
Quali saranno le stragi e i fatti che gli spettatori si ritroveranno a maneggiare e perché sono stati scelti come snodi funzionali nella narrazione?
Mi verrebbe da dire tutte e nessuna al tempo stesso, nel senso che il racconto non segue un ordine cronologico e dichiara in premessa di non voler essere esaustivo. I fatti citati, con l’aiuto impareggiabile del vicedirettore di Sky Tg 24, Daniele Moretti, in qualità di “inviato speciale dal passato”, sono tutti funzionali al ragionamento, che procede per parole-chiave, non sull’asse temporale. Per dire, si spazia dal 1878 ai giorni nostri, sempre andando a zonzo per il passato e cercando di collegare gli eventi. L’immagine scelta è quella del puzzle: ogni avvenimento (non solo le stragi) è una tessera. Più vai a guardarlo da vicino e meno capisci dove metterlo per comporre il quadro di insieme.
Ne Il Buco nero si parla di “strategie della paura”, al plurale. Perché?
Perché il singolare sembra alludere a un Grande Vecchio, a una Spectre che ha soppesato ogni mossa per giungere al fine che si prefissava. Così non è, perché la quantità e qualità di interessi (e quindi di soggetti) sulla scena ha creato una specie di blob, fatto di alleanze e rotture, unioni e sotterfugi, scontri e pacificazioni. Nella vulgata esistono solo due posizioni, la prima che postula l’esistenza di una cabina di regia, la seconda che smonta tutto tacciando qualsiasi ipotesi di complottismo. La verità non è esattamente in mezzo, ma è ancor meno a questi due estremi. Tocca provare a scavare, sapendo che non contano i risultati, ma lo spirito con cui lo si fa. Hannah Arendt, che mi permetto di citare più volte, consiglia a magistrati e giornalisti un atteggiamento “disinteressato”, nel senso che non si cura dei risultati che raggiungerà. Sarei patetico se dicessi che ho utilizzato questa ricerca, ma spero di non esserlo dicendo che ci ho provato con tutte le mie (modeste) forze.
Vuole più informare, nel senso di “dare una forma” ai dubbi, o fare riflettere su quei dubbi?
Senz’altro la seconda, il che non impedisce in qualche passaggio di mettere a disposizione la forma che io ho dato a quei dubbi, presentata sempre rigorosamente come l’ipotesi più plausibile date quelle premesse. Sempre ricordandosi che io non parlo di scovare mandanti ed esecutori, ma di mettere il maggior numero di tessere nel posto giusto del puzzle. Usando quindi la logica, non l’istruttoria.
Diverse vicende giudiziarie legate al terrorismo nero e alle stragi di mafia non hanno, ancora oggi, un iter giudiziario concluso. Una sorta di passato che non passa?
Esattamente, un passato che non passa perché lo abbiamo rimosso e non elaborato. Ciò è successo per tanti motivi: ideologia e altri fumus ci hanno obnubilato, con il tempo e qualche fiction di troppo abbiamo preso a considerare gli avvenimenti come una specie di film, depistaggi e infiltrazioni sono stati inoculati nel sistema in quantità tutt’altro che omeopatiche e un’idea malvagia di “Ragion di Stato” ha trovato spazio nel nostro immaginario. Una delle puntate gira attorno a quest’ultimo concetto, che mi pare a dir poco centrale. Siamo riusciti nel dubbio capolavoro di dare allo Stato il ruolo di capro espiatorio delle stragi e di suo concorrente “a fin di bene”, un’acrobazia davvero degna di miglior causa.
Come si supera questa impasse pluridecennale?
Intanto mettendoci d’accordo sui fatti e sul loro significato. Significa coinvolgere tutti, posto che determinate categorie, a partire dagli storici, avranno un peso diverso in questo processo, che però deve riguardare tutti i cittadini per produrre qualche risultato significativo. Uso l’immagine del guardare bene indietro per poter guardare finalmente avanti, cosa che finora non siamo stati capaci di fare. Molti propongono di ispirarsi alla Commissione Sudafricana per la Riconciliazione, che mise la verità, e non la punizione dei singoli responsabili, al centro della resa dei conti con l’apartheid. Ovviamente il nostro caso è diverso, ma i criteri della migliore giustizia riparativa dovrebbero ispirarci, visto che con gli strumenti “classici” finora abbiamo fragorosamente fallito. Spero che sia comprensibile che non sto parlando di amnistie o colpi di spugna, ma dell’esatto contrario.
Di quelle stagioni, esiste un riverbero ancora oggi, sociologicamente parlando, nella vivere di “curve” in ogni ambito?
Assolutamente sì, una specie di “opposti estremismi intellettuali” che trova una sponda clamorosa nel fondersi di informazione e cose che informazione non sono. E non è una questione di piattaforme ma di sostanza. È proprio il motivo per cui andrebbe vista criticamente una stagione in cui chi voleva attaccare il potere lo ha rafforzato, in un portentoso caso di eterogenesi dei fini. L’antidoto non può essere che una visione laica delle cose, agganciata robustamente alla realtà e non disposta a semplificazioni ed emozioni, a stereotipi e inganni. Non sarà un caso, immagino, che questi elementi fossero già sul piatto negli Anni ’60.