Già lo aveva detto un migliaio o giù di lì di volte, Javier Gerardo Milei. E, prevedibilmente, lo ha ripetuto – con tutte le enfasi e sottolineature del caso – anche ieri, nel giorno della sua incoronazione. Quella che comincia con la sua presidenza, ha infatti solennemente riaffermato, è “un’epoca nuova”. E nel suo esser nuova è anche – come monsieur de La Palisse di certo confermerebbe – la fine di qualcosa. È, più precisamente, la “fine di cent’anni di decadenza”. Meglio ancora: è la “fine della lunga notte del populismo”. Ed è anche – come ogni leader populista che si rispetti ha prima di lui regolarmente sostenuto – una strada senza ritorno. “No hay vuelta atrás”, indietro non si torna.
Forse proprio da qui, dalle scelte cerimoniali e dai toni inequivocabilmente populisti con i quali Milei ha annunciato ieri all’Argentina la fine del populismo, vale la pena partire per cercare di capire il senso – un senso a tutti gli effetti inverso – della “nuova epoca” di cui Milei si dice messianica espressione. Per la prima volta nella storia dell’Argentina democratica, il presidente eletto, indossata la banda presidenziale e ricevuto il bastone di comando, ha pronunciato il suo discorso inaugurale, non di fronte al Congresso, ma nella piazza di fronte al Congresso. Ovvero: rivolgendosi direttamente al popolo riunito in quella che troppo forte, date le circostanze, è la tentazione di chiamare una “oceanica adunata”. Nel più classico dei bagni di folla – durante il quale non ha baciato bambini ma, a conferma della sua nota e semi-religiosa cinofilia, ha, tra un selfie e l’altro, accarezzato un paio di cani – ha quindi percorso a piedi il tratto di strada che separa il Palacio del Congreso de la Nación Argentina dalla Casa Rosada. Ed entrato in quella che è, per volontà popolare, diventata la sua abitazione ha concesso una più sintetica, ma egualmente appassionata replica dal balcone che si affaccia sulla Plaza de Mayo. Lo stesso balcone che del populismo fu, ai tempi del generale Juan Domingo Perón e della sua consorte Evita, una sorta di consacrato altare, poi regolarmente usato in forma sacrificale da tutti i successivi peronismi, in tutte le loro multiformi e camaleontiche espressioni.
E che cosa ha detto il presidente Milei rivolgendosi, da questo altare, direttamente al “suo” popolo? Ha, fondamentalmente, raccontato una favola che, riportata in estrema sintesi, suona più o meno così. C’era una volta un’Argentina grande, ricca, bella e libera. Anzi c’era una volta un’Argentina che era la più grande, ricca, libera e bella Nazione del mondo, un vero e proprio “faro di luce dell’Occidente”. E che tale era rimasta fino ai primi vent’anni anni del secolo passato, quando su di lei calarono le tenebre. O, più precisamente, quando al suo interno prevalsero “las ideas emprobecedoras del colectivismo”, le idee d’un collettivismo capace soltanto di creare povertà. E nella povertà all’Argentina toccò vivere o, meglio, dormire un sonno pieno d’incubi, per cento lunghi anni. Fino al giorno in cui – oggi per l’appunto – arrivò un prode cavaliere che con un libertario bacio, la risvegliò dal suo tormentato e doloroso sonno, aprendo, infine, le porte ad una “era de paz y prosperidad. Un’era de crecimiento y desarrollo. Una era de libertad y progreso”. Un’era di pace e prosperità. Un’era di crescita e di sviluppo. Un’era di libertà e progresso.
Ovvia domanda: è possibile trovare in questa favola qualche almeno remota corrispondenza con la vera Storia dell’Argentina? Ed una sola è la possibile risposta. Se questa corrispondenza davvero esiste, molto difficile è incontrarla, foss’anche solo in parziali e pallide sembianze, senza una previa ed incondizionata conversione al religioso – fanaticamente religioso – culto della “scuola di Francoforte” (quella che, per l’appunto, sull’onda delle dottrine di Frederick Hayek, Milton Friedman, Ludwig Von Mises ed altri, predica il più liberista pensiero economico) praticato da Milei e dai suoi seguaci. I quali con (per la verità molto moderato) sdegno respingono – nel nome del loro feroce credo anti-Stato – ogni accusa di fascismo. Ma che col fascismo indiscutibilmente condividono una basica caratteristica: la mitica visione d’un “passato di gloria”, mai esistito, ma da riconquistare sotto la guida d’un “uomo della Provvidenza”.
No, non c’è traccia, nella Storia dell’Argentina, di alcun “faro de luz del Occidente” o, ancor meno, di Nazioni “più ricche e libere del mondo”. Quello che si incontra è, invece, un paese agro-esportatore che fu, in effetti, molto ricco. E che poi rapidamente s’impoverì per ragioni che storici ed economisti vanno da sempre dibattendo sotto l’immancabile titolo di “L’enigma argentino”. Ragioni che, per quanto assai varie e contrapposte, di certo hanno molto più a che fare con l’assenza d’uno Stato capace di governare il rinnovamento d’una economia agrario-oligarchica (quella, per l’appunto che nel Milei-pensiero fu un regno d’abbondanza e libertà), che con qualsivoglia forma di “colectivismo emprobecedor”. Nessuna persona seria potrebbe definire “collettivisti” – alla guisa di Stalin o anche solo della Cuba castrista – i governi radicali di Hipólito Yrigoyen o di Marcelo Torquato de Alvear, che democraticamente occuparono la presidenza tra il “20 ed il ’30. O ancor meno quelli delle dittature militari di José Felix Uriburu e Roberto María Ortíz, che, nel nome della “libertà economica” della oligarchia agraria, tra il ’30 e il ’40, diressero – contro ogni forma, non di collettivismo, ma di progressismo e di democrazia “- la politica e l’economia argentina, per molti aspetti aprendo la strada al “fascismo sociale” di Juan Domingo Perón ed all’imperituro mostro dalle mille teste – nessuna delle quali, peraltro, mai ha avuto, neanche nella sua veste “montonera”, alcunché di collettivista – chiamato “peronismo”.
Nell’assumere ufficialmente la presidenza Javier Gerardo Milei è stato ieri, a tutti gli effetti, fedele a sé stesso. Vale a dire: ha raccontato balle. Lo ha fatto, a suo modo, con estrema onestà, laddove ha parlato di lacrime e sangue. O, più precisamente, laddove ha annunciato – “non c’è spazio per gradualismo o mezze misure” – un “adjuste economico shock”. Vale a dire: una classica cura da cavallo i cui immediati effetti, ha ammesso, saranno un drastico peggioramento di tutti gli attuali (e già più che tragici) indici economici. Più inflazione, più povertà, salari più bassi... Ed a suo modo onesto – pur aggiungendo balle a balle – Milei è probabilmente stato anche quando, parlando al disperato paese che l’ha votato, ha descritto tutto questo come l’ultimo “boccone amaro”, come lo shock economico che porrà fine a tutti gli shock economici e, in ogni caso, come l’unica alternativa di fronte all’apocalisse d’un processo inflazionario che, ereditato dall’attuale governo, è ormai prossimo, se lasciato a se stesso, a raggiungere – questo ha detto sulla base di alquanto discutibili calcoli storico-economici – il 15.000 per cento, (oggi è al 140 per cento). Meglio ancora: come l’ultimo passo nelle tenebre necessario per scorgere la proverbiale luce in fondo al tunnel. E per tornare, infine, nel nirvana della originaria grandezza argentina.
Per spiegare quel che fu e quel che, grazie a lui, tornera ad essere l’Argentina, Milei ha citato alcuni eroi il cui esempio guiderà il suo cammino. Eroi dell’oggi, come l’economista spagnolo Jesus Huerta de Soto (quello che teorizza che “ogni piano contro la povertà è inevitabilmente destinato ad aumentarla”). O come l’economista argentino e suo primo consigliere Alberto Banegas Lynch figlio (lo stesso che di recente ha proposto la rottura delle relazioni col Vaticano in risposta alle idee comuniste di Bergoglio). Ed anche eroi del passato. Su tutti: il generale Julio Argentino Roca, presidente a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, noto non solo come “el conquistador del desierto” – leggi come il massacratore, o il genocida, delle popolazioni indigene della Pampa – ma anche come l’uomo che consolidò la natura corrotta e oligarchica, grettamente agraria, della Repubblica. Il vero precursore, per molti aspetti, della “decadenza” dalla quale Milei s’appresta a sottrarre l’Argentina in saecula saculorum.
Non c’è dubbio alcuno. Il “libertario”, l’ “anarco-capitalista” Javier Gerardo Milei ama gli “uomini forti”. Quelli, in particolare, che non esitano a far uso della forza. E la libertà che anche ieri ha ripetutamente invocato accompagnata dal classico “carajo”, resta – come più volte ha ricordato durante la campagna elettorale – quella dei Chicago Boys che guidarono l’economia cilena nei molto liberali anni di Augusto Pinochet. C’è qualcosa di molto vecchio – qualcosa che, nella sua vecchiezza, odora inequivocabilmente di marcio – nella “nuova era” che Milei va annunciando.
Come finirà quest’ultima favola argentina non è dato sapere. Ma una cosa già si può dire: non ci sarà – soprattutto per i poveri – alcun lieto fine.