Il destino di ogni bandiera è quello di essere prima ammainata e poi rimpianta. È così per tutte. E da ieri è così anche per Giorgio Chiellini da Livorno, il monolite che per venti anni ha affermato se stesso azzerando gli attaccanti avversari. Un compito che ha portato a termine con dedizione pressoché totale. Fino a restare intrappolato in uno stereotipo. Quello del difensore brutto, sporco e cattivo, dell’ammaccatore di caviglie altrui. In realtà Chiellini è stato tante cose e tutte insieme. Tanto da risultare un giocatore enorme ed enormemente complesso. E, proprio per questo, facilmente fraintendibile. Il suo modo di stare in campo ha assunto presto le sembianze di un trattato sul talento. Perché troppo spesso la classe viene confusa con la grazia, con il tocco vellutato, con la parabola morbida, con la capacità di fluttuare sul prato verde seminando un avversario dietro l’altro. Chiellini è stato l’esatto contrario. Due piedi di granito incastrati sotto a un corpo da corazziere. “Non mi ha baciato il dio del calcio: ero grezzo, ero sgraziato”, scrive nella sua biografia. Ed è vero. Solo che il talento di quel ragazzo era racchiuso nella volontà di allenare ciò che aveva a disposizione. Fino a innalzarlo a sistema. Fino a sostituire l’eleganza con l’efficacia.
Il campo da calcio come campo da battaglia. Il corpo a corpo come strumento per spegnere la luce degli avversari. Un po’ oplita, un po’ ministro della Difesa, Chiellini si è nutrito dell’adrenalina come Begbie di Trainspotting, trasformandola in irruenza, in strapotere fisico, in voglia di dominare. Giocare contro di lui significava rischiare un esaurimento nervoso. E prepararsi anche a una discreta dose di botte. “Più che cattivo ero fastidioso”, ha detto il centrale tempo fa a Rivista Undici. Oppure, come ha scritto lui stesso, “Gioco, quando serve, come un bastardo. Amo gli attaccanti che non scappano, che mi guardano negli occhi come li guardo io”. Anche per questo Chiellini sembra uscito da un cronosisma. “Chi è soltanto in anticipo sul proprio tempo, dal suo tempo sarà raggiunto”, scriveva Wittgenstein. Per il centrale è stato esattamente l’opposto. Una vita passata a inseguire, in direzione ostinata e contraria, a provare a resistere all’estinzione. Perché Chiellini si è affacciato al grande calcio proprio quando il pallone stava cambiando. Era l’alba di una nuova era, dove i centrali difensivi dovevano impostare come fantasisti, dove il passaggio per saltare la linea del pressing avversario valeva quanto un contrasto vinto. Giorgio era diventato presto un intruso, l’ultimo discendente di una lunga dinastia di grandi marcatori che ora veniva guardata con sospetto. Eppure l’antimodernità è diventata la sua forza, il suo tratto distintivo.
Lo si era capito già nel pomeriggio del 12 settembre del 2004. Dopo quattro annate fra C1 e B con il Livorno, il giocatore era stato acquistato in comproprietà della Roma. Gli amaranto però lo riscattano e lo vendono alla Juventus. “Abbiamo preso il miglior giovane italiano”, dice Luciano Moggi. Sembra una boutade, invece è qualcosa di molto simile alla verità. Capello diventa il nuovo mister della Signora. Il suo rapporto con i giovani è sempre stato complesso. Ed è così anche stavolta. Chiellini, a vent’anni, viene spedito a farsi le ossa alla Fiorentina. Allora è ancora un terzino sinistro che gioca a tutta fascia. All’esordio in campionato la Viola di Mondonico perde 1-0 grazie a un gol di Montella. Ma il ragazzo di Livorno viene notato soprattutto per un dettaglio. Verso la fine del primo tempo Chiellini ringhia verso Cassano che si era lasciato cadere al limite dell’area. “La faccia di Chiellini è volitiva, quasi dantesca”, commenta Amedeo Goria alla Domenica Sportiva. Fantantonio si avvicina a Giorgio, gli appoggia una mano sulla faccia e se ne va. Il difensore crolla a terra e si rialza poco dopo. Il barese invece viene espulso. Succede di tutto. Chiellini finisce la partita addirittura come centravanti. “Quando ho sentito la mano in faccia mi sono buttato per terra. D’altronde eravamo in 10…”, dirà al termine del match.
Nonostante i successi, tuttavia, c’è una parola che Chiellini ha ripetuto piuttosto spesso nella sua carriera. Ed è “solitudine“. “Soli si è sempre – confida nella sua biografia – Se non accetti questa dimensione, questa realtà, non crescerai mai, non sarai mai nessuno. Si è soli, e si è insieme agli altri: le due cose, in fondo, sono la stessa”. Oppure: “Sentirsi soli, avere bisogno di esserlo, a volte. Imparare, imparare sempre. Anche la solitudine”. E ancora: “Io sono un solitario, non mi piace mostrarmi”. Sembra un controsenso. E invece è proprio in questo senso di continuo straniamento, in questo isolamento a fasi alterne che Chiellini ha trovato la forza di lavorare su se stesso, di migliorare di settimana dopo settimana.