Dopo 13 anni di proroghe, leggi impugnate e caos incontrollato, la Puglia si è dotata del nuovo Piano Casa. O meglio, di “una legge sulla ristrutturazione edilizia”, è la specifica. Di fatto, un piano casa.

E lo dimostra il fatto che si è dovuto intervenire dopo l’altolà della Corte Costituzionale, dello scorso 10 febbraio 2023, alle “reiterate proroghe delle misure derogatorie che hanno, di fatto, reso stabile una disciplina eccezionale e transitoria, favorendo la realizzabilità di interventi parcellizzati sul territorio e mettendo così a repentaglio l’interesse all’ordinato sviluppo edilizio, proprio della pianificazione urbanistica”.

La legge, nella sua prima stesura, è nata nel 2009 con il fine di sostenere l’edilizia che, al tempo, era in grave crisi economica. Prevedeva la possibilità di demolire e ricostruire edifici e fabbricati esistenti, con un incremento volumetrico fino al 20 percento in caso di ricostruzione, fino al 35 percento in caso di demolizione e costruzione di nuovi edifici. Il punto, però, è che da quel 2009 e sino al 2022 la legge non è stata nuovamente scritta, aggiornata o modificata. Ma è stata semplicemente prorogata di anno in anno, con l’aggravante, nel 2015, della concessione del cambio di destinazione d’uso. Di lì la situazione è sfuggita di mano, al punto che nella città di Bari, divenuta il simbolo di un boom edilizio, il sindaco Antonio Decaro ha dovuto mettere un freno.

Nel 2023, come detto, l’ennesima proroga è stata – per la seconda volta – impugnata dal Governo centrale e poi cassata dalla Consulta. E tra una proroga e una dichiarazione di incostituzionalità, come era facile prevedere, il comparto del mattone e i Comuni sono finiti nel caos più totale tra norme in vigore e quelle decadute.

Una nuova legge, insomma, era necessaria: ecco perché i partiti dell’intero Consiglio regionale l’hanno approvata all’unanimità. Tutti soddisfatti? Non proprio. Perché la legge – che ha avuto un travagliato iter lungo un anno e mezzo fatto di tavoli tecnici e audizioni – non piace agli ambientalisti, non convince gli urbanisti e non piace, del tutto, al Movimento 5 Stelle che ha pure provato a modificarla con un emendamento, senza successo. Ma prima di capire quale sia il punto che divide tecnici e partiti, vediamo cosa prevede la norma nel suo complesso.

Anzitutto, lo scopo illustrato dal consigliere delegato all’Urbanistica Stefano Lacatena – la Puglia non ha tecnicamente un assessore al ramo – è la ristrutturazione edilizia degli edifici vetusti, a rischio sismico, non performanti dal punto di vista energetico, abbandonati e in disuso, rendendo dunque applicabile anche in Puglia il decreto legge 76 del 2020 che consente, appunto, le ristrutturazioni.

Per farlo, sono consentite demolizioni e ricostruzioni, con un ampliamento del 35 percento della volumetria. Percentuale che scende al 20 – e non oltre i 300 metri cubi – se si tratta del solo ampliamento. Il punto, però, è che quella possibilità di aumentare la volumetria del 35 percento – con un tetto massimo di 200 metri cubi – è consentita anche nelle zone agricole.

Già Italia Nostra, nelle ultime audizioni in commissione Ambiente, si era detta contraria a questa possibilità. Contestando soprattutto un passaggio della norma: se si includono edifici “legittimi o legittimati, chi, attraverso i vecchi condoni edilizi, ha potuto conservare un edificio che non aveva nemmeno titolo a costruire, con questa legge viene incentivato ad ampliarlo”. E non solo. Le zone agricole pugliesi sono fatte di trulli e “pagghiare”, cioè vecchie costruzioni tipiche che un tempo servivano al contadino per rifugiarsi dal caldo. “Oggi – spiegano da Italia Nostra – si autorizza a demolire e ricostruire un nuovo edificio, al posto di una delle testimonianze della nostra agricoltura”.

Sarebbe “un’ottima legge” – è la sintesi – se riferita solo alle zone urbane B e C (residenziale consolidata e di espansione). E invece “andiamo in contrasto, ancora una volta, con la normativa nazionale e facciamo quello che abbiamo detto di non voler fare: il vecchio piano casa con giustificazioni contraddittorie”. Anche l’Istituto nazionale di Urbanistica, audito in commissione, ha mostrato perplessità per la mancanza di un più completo ed esaustivo piano urbanistico. Le eccezioni sollevate dagli ambientalisti, sono state portate in aula dal Movimento 5 Stelle. Ma, come detto, senza successo. Il pentastellato Cristian Casili, infatti, ha tentato di stralciare dalla legge la parte che riguarda le zone agricole, puntando anche su un altro aspetto: “È una invasione nella pianificazione che nelle aree agricole è prerogativa dei singoli Comuni”.

E di più, il DM 1444, la norma nazionale che detta i confini e le regole in materia urbanistica in Italia – ha spiegato Casili – pone dei limiti di densità edilizia. “Sarebbe necessario – ha proposto – avviare una analisi complessiva per capire se chi ha già sviluppato una residenza in area agricola, ha già utilizzato l’indice di densità a sua disposizione. Secondo me sì”. Quindi senza entrare “a gamba tesa nelle prerogative dei Comuni che chiamiamo in causa solo quando conviene – è stata la conclusione – sarebbe opportuno fermarsi”. E invece no.

Una modifica introdotta in fase di approvazione della legge – proposta dal consigliere del gruppo Misto, Antonio Tutolo – è l’introduzione dell’obbligo per i Comuni di destinare il 15 per cento degli oneri di urbanizzazione all’abbattimento delle barriere architettoniche. Le uniche esclusioni, per gli interventi di ampliamento, sono previste per le zone industriali e i servizi, per gli edifici di valore storico e architettonico, per quelli ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, in oasi faunistiche o ad alta pericolosità idraulica. La legge, per il resto, passa così com’è. Sempre che il Governo centrale non abbia nulla da eccepire.

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