“L’hanno preso come un topo, in una tana diventata una trappola: senza sparare un colpo, senza versare sangue, nell’ ‘Alba rossa’ d’un Iraq finalmente libero dalla paura del ritorno del dittatore. Hanno preso un uomo isolato, senza neppure un telefonino, ormai tagliato fuori da contatti operativi con la resistenza irachena, costretto a cambiare nascondiglio ”ogni tre ore”, con addosso 750mila dollari in contanti che forse non bastavano più a comprargli l’omertà dei complici. Hanno preso Saddam Hussein, il deposto dittatore dell’Iraq: un uomo solo, che del potere – riferisce chi l’ha visto e gli ha parlato dopo la cattura – conserva l’arroganza: stanco, smarrito, ma non pentito (”Sono stato un leader fermo, ma giusto”)”.

Così iniziava il pezzo con cui, domenica 14 dicembre 2003, dall’ufficio dell’Ansa di Washington, raccontavo la cattura di Saddam Hussein e cercavo di analizzarne le conseguenze. Il rais era stato preso la sera del 13, ma la notizia aveva cominciato a circolare solo la mattina successiva, prima dubitativa, poi certa.

Un’operazione concepita su archetipi cinematografici: ‘Alba Rossa’, ‘Red Dawn’ il nome, tratto dall’omonimo film del 1984 di John Milius, quello di Dillinger, Un mercoledì da leoni, Conan; Wolverines, come nel film, i siti da bonificare nella città di Ad-Dawr. La Task Force 121, un corpo d’elite per operazioni speciali, agì con l’appoggio dalla 1ª Brigata Combat Team della 4ª Divisione di Fanteria comandata dal maggior generale Raymond Odierno.

C’erano state soffiate, il giorno prima era stato preso Muhammed Ibrahim Omar al-Musslit, uomo di fiducia del dittatore; parlò di Ad-Dawr e di una fattoria a sud di Tikrit. Nei due siti i militari, però, non trovarono nulla. Ma quando stavano per dichiararsi ancora una volta battuti da Saddam, che da oltre otto mesi eludeva le loro ricerche, pur essendo l’obiettivo numero uno della caccia all’uomo in Iraq, scoprirono per caso un buco di ragno dove il rais s’era nascosto: venne fuori senza opporre resistenza, “sono il presidente”, disse; “non sparate”.

La Task Force 121 aveva già organizzato altri 12 raid infruttuosi, oltre 600 operazioni minori. Intorno al presidente, la rete di connivenza andava assottigliandosi. Qualcuno, illudendosi, ci vedeva i segni di un’evoluzione democratica del Paese invaso. Ma era solo l’effetto della paura dell’occupazione o della ricerca di vendette, di tentativi di salvare la pelle o di acquisire benemerenze agli occhi degli occupanti. Facile parlarne ora, con il senno di poi, sapendo come sono andate a finire le cose: almeno 12 anni di occupazione militare (e tuttora vi sono sul terreno soldati americani), guerriglie insurrezionali, azioni terroristiche, la nascita dell’Isis e anni di attentati in Europa, una democrazia che resta fragile e un Paese che non riesce a sviluppare il proprio potenziale.

Ma torniamo al racconto di quel giorno, che riflette lo spirito del tempo – oggi sarei più cauto. “”E’ una buona giornata” dicono alla Casa Bianca; e lo pensano gli americani, che a Washington si svegliano con la neve alta e le tv che raccontano già tutto e mostrano quell’uomo coi capelli arruffati e la barba lunga, uno degli Hitler del XX secolo. Una buona giornata perché un dittatore assicurato alla giustizia, quella – dice il presidente George W. Bush – che ”lui aveva negato a milioni d’iracheni”, “è una buona cosa”. Bush aveva avuto le prime informazioni sabato sera dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld: era subito rientrato da Camp David alla Casa Bianca – per la neve, era stata la spiegazione ufficiale. All’alba, il presidente riceve conferma dalla consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice. A mezzogiorno, le 18 in Italia, parla brevemente: poco più di quattro minuti, per dare due messaggi agli iracheni e agli americani. Agli iracheni dice che il tempo della paura è passato, che il tempo della libertà è arrivato. Agli americani ricorda che il tempo della violenza non è finito: la missione in Iraq continua e resta pericolosa: i ragazzi al fronte non torneranno ora, continueranno a rischiare la vita di giorno in giorno.

Catturato Saddam, è stata smantellata quasi completamente la cupola del regime iracheno. Erano stati distribuiti mazzi di carte con le immagini dei ”super-ricercati”: solo 14 restano liberi, gli assi sono stati tutti presi o uccisi, come i due figli di Saddam, Uday e Qusay, fatti fuori a Mossul dopo un’accanita resistenza. Saddam non combatte come i figli, non si difende, non si ribella: si lascia prendere. I generali che comandano le operazioni a Tikrit demoliscono un mito: ”Parla, collabora”, dicono. Un video mostra un medico che lo spulcia alla ricerca di pidocchi, che lo esamina in bocca, che gli preleva campioni per l’esame del Dna. James Woolsley, un ex direttore della Cia, spiega perché quelle immagini: il dittatore viene pubblicamente umiliato, deve apparire finito.

Saddam è stato tradito da un familiare o da un pretoriano attratto dai 25 milioni di dollari di taglia o da una fronda di potere al vertice della resistenza. E’ stato catturato nella sua Tikrit, la città del clan cui apparteneva, dove si sentiva più sicuro. L’arresto del rais non segnerà la fine della guerriglia contro l’invasione e non sarà neppure il trionfo della giustizia: Saddam sarà processato, condannato a morte, giustiziato il 30 dicembre 2006, tutto in modo frettoloso e non sempre trasparente. Più che per i suoi delitti, atroci e criminali, c’era fretta di sbarazzarsene perché restava ingombrante.

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