Il 1 novembre scorso la Consulta, esprimendosi anche sul suo caso, aveva stabilito che doveva essere eliminato il divieto assoluto di diminuire la pena in presenza di circostanze attenuanti, introdotto nel 2019 dal Codice Rosso. È così oggi Alex Pompa, il giovane che nel 2020 a Collegno (Torino) uccise a coltellate il padre, Giuseppe, per difendere la madre nel corso dell’ennesima lite in famiglia, è stato condannato a 6 anni, 2 mesi e venti giorni. La sentenza è stata pronunciata dalla corte di assise di Appello di Torino. In primo grado Alex era stato assolto per legittima difesa. Il pg Alessandro Aghemo aveva chiesto sei anni, 2 mesi e 20 giorni. Il processo è ripreso dopo una pronuncia della Corte costituzionale, che ha permesso l’applicazione della prevalenza di alcune attenuanti rispetto alle aggravanti. La richiesta originale del pg era stata, infatti, di 14 anni. I giudici oggi hanno anche disposto la trasmissione in procura delle dichiarazioni rese dalla madre e dal fratello.

La sentenza – Il vizio parziale di mente e l’avere agito in ‘stato d’ira’ per un fatto ingiusto (in altri termini, la provocazione). Sono queste, insieme a quelle chiamate ‘generiche’, le attenuanti applicate dalla Corte di assise di appello di Torino per quantificare la pena. Sono state considerate prevalenti – così come permesso dalla Corte costituzionale in una pronuncia legata proprio a questo procedimento – rispetto all’aggravante del vincolo di parentela. Alex, come prevede la norma la normativa, è stato dichiarato “indegno a succedere al padre”. Per effetto della sentenza dovrà risarcire il fratello della vittima, che si è costituito parte civile, versando un acconto (la cosiddetta provvisionale) di 30mila euro.

L’invio alla Consulta – Il 5 maggio scorso i giudici avevano sollevato il conflitto davanti alla Consulta ritenendo che non ci fosse stata legittima difesa, né eccesso colposo ma che il giovane, che la sera del 30 aprile 2020 uccise con 34 coltellate – sferrate con 6 diversi coltelli – il padre Giuseppe nel loro appartamento di Collegno (Torino) e quindi dovesse essere condannato per omicidio volontario. I magistrati avevano sottolineato che la norma che vieta di bilanciare l’aggravante del vincolo di parentela con alcune attenuanti (tra cui, in questo caso, quello della provocazione) rischiava di violare gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Per questa i giudici, presieduti da giudice Maria Cristina Domaneschi, aveva deciso di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma introdotta dal “Codice Rosso”.

Le reazioni – “Alex deve essere assolto perché ci ha salvato la vita. Se vogliamo che qualcosa cambi, se vogliamo evitare che le donne continuino a morire e che non ci siano più casi come quello di Giulia (Cecchettin, ndr), la sentenza non può essere questa – dice Loris Pompa, fratello del giovane – Non siamo assolutamente d’accordo e andremo avanti”. “Alex – ha detto la mamma, Maria – non è un assassino. A questo punto mi chiedo se a qualcuno sarebbe importato davvero qualcosa se fossi stata l’ennesima donna uccisa”.

“Incomprensibile” e “difficile da accettare” dice l’avvocato difensore, Claudio Strata, commenta la sentenza con cui la Corte di assise di Appello di Torino ha condannato il suo assistito, Alex Pompa, per l’omicidio del padre. Il riferimento, in particolare, è alla trasmissione degli atti in procura perché si valutino le testimonianze della mamma e del fratello dell’imputato. “I due – osserva il penalista – erano già stati ascoltati separatamente la notte stessa del fatto. Per i giudici di primo grado erano stati considerati affidabili. I giudici d’Appello sono stati di diverso avviso. E questo è difficile da accettare”.

Il processo – In primo grado il giovane, 21enne all’epoca dei fatti, era stato assolto per legittima difesa: i giudici della Corte d’Assise infatti avevano ritenuto che il ragazzo avesse agito per difendere la madre da una sicura violenza, forse dalla morte, e che in quel modo avesse scelto “tra vivere o morire”. Una tesi sempre contestata dal pm, che a più riprese durante l’istruttoria aveva descritto la condotta di Alex come “dominata dall’angoscia” e “abnorme” rispetto al pericolo che si profilava per sé, la madre e il fratello Loris. Secondo la ricostruzione agli atti, quella sera il padre, un uomo violento e morbosamente geloso della moglie, aveva minacciato i familiari di morte: “Vi ammazzo, venite sotto, vi faccio a pezzettini”, avrebbe detto.

La ricostruzione – A quel punto i due fratelli avevano chiesto aiuto via sms allo zio, fratello del padre, mentre la madre si sarebbe chiusa in bagno. “Ho visto mio padre andare verso la cucina. Allora l’ho anticipato, ho preso un coltello (da cucina, con la punta arrotondata, ndr). Poi non ricordo più nulla”, ha dichiarato l’imputato ai giudici. Alex ha sempre ammesso le sue responsabilità, a partire dalla chiamata ai Carabinieri con cui la sera stessa confessò l’omicidio. Durante tutto il dibattimento, i suoi racconti sono stati lucidi e coerenti solo fino al momento in cui ha impugnato il coltello, mentre da lì in poi sono puntellati di “non ricordo”. Proprio questa circostanza, insieme alle dichiarazioni rese dalla madre e dal fratello – unici due testimoni dei fatti – avevano convinto la Corte dell’“evidente tentativo di sfuggire alle domande” sulla ricostruzione degli avvenimenti, per spostare l’attenzione sul contesto familiare. Nel dispositivo i testimoni sono definiti “reticenti e scarsamente credibili” e i loro racconti “incongruenti”.

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