“Un disastro inimmaginabile: le persone soffrono la fame, e anche andare in bagno ormai è diventato un lusso perché non c’è più acqua. È peggio di un terremoto, peggio di un vulcano”. Così Sami Abu Omar, coordinatore del centro di scambi culturali Vik di Gaza, descrive le condizioni della popolazione sfollata nel sud della Striscia di Gaza. Con l’inizio dell’assedio della città meridionale di Khan Younis, la seconda più grande della Striscia dopo Gaza City, Sami Abu Omar è stato costretto a lasciare la sua abitazione insieme ad altre migliaia di persone. Il suo palazzo ora è stata occupato dai cecchini di Tel Aviv. “Abbiamo camminato per 14 chilometri a piedi. Le persone non avevano niente, solo quello che indossavano. Siamo arrivati a Rafah, ma qui non c’è più un posto: è tutto pieno dopo l’arrivo degli sfollati dal nord. Alcuni hanno cominciato a costruire baracche con assi di legno e teli di plastica per proteggersi, ma quando piove i tetti diventano come vasche. Noi ci siamo sistemati in una piccola stanza vicino al mare. Dentro siamo 40″.
Sami Abu Omar aveva già parlato al Fattoquotidiano.it il 13 ottobre, a una settimana dall’inizio dei bombardamenti. Da allora la situazione umanitaria si è aggravata di giorno in giorno, e oggi, dopo oltre 60 giorni di attacchi, le organizzazioni internazionali parlano senza mezzi termini di una catastrofe. Gli ultimi dati diffusi dal ministero della Sanità di Gaza stimano oltre 18mila e 600 morti, di cui 5mila bambini. Senza considerare i dispersi sotto le macerie. Gli sfollati interni sono l’85% della popolazione totale: hanno lasciato le loro case con poche cose e non sanno se potranno mai ritornarci. Curarsi o avere medicine è diventato impossibile: il sistema sanitario è collassato. Il prezzo di un alimento base come la farina è anche dieci volte più alto rispetto a prima della guerra. L’acqua potabile è quasi introvabile e le famiglie sistemano le bacinelle fuori dalle tende quando piove o usano l’acqua di mare. Gli aiuti hanno l’effetto di una goccia nel deserto e i camion con i rifornimenti devono girare con la scorta perché rischiano l’assalto di civili disperati e allo stremo. “I due terzi delle case sono distrutte. Quando finirà la guerra le persone non avranno più un posto dove tornare. Alcuni non hanno più nemmeno uno Shekel. C’è la fame, la miseria totale. Questa è la mia voce e quella del popolo di Gaza, è una denuncia contro tutto il mondo. Non crediamo più a nessuno. Netanyahu non vuole distruggere Hamas, ma tutti noi. E nessuno sta intervenendo per fermarlo”