Le assunzioni rallentano, i salari non crescono – anzi diminuiscono in termini reali per effetto dell’inflazione – e non riescono nemmeno a tenere il passo della produttività, che pure è molto bassa. Il rapporto Inapp 2023 racconta, al di là della propaganda governativa, un mercato del lavoro frenato dai suoi problemi strutturali, e che porta gli italiani a essere tra i più insoddisfatti d’Europa, non solo per i bassi stipendi. E anche tra i meno tutelati, visto che in caso di una nuova crisi ben quattro milioni di occupati resterebbero senza paracadute; niente ammortizzatori sociali o indennità di disoccupazione.

Insomma, in questi giorni si parla di un boom di posti di lavoro nel Paese: in realtà, dice l’istituto pubblico di ricerca socio-economica, se nel 2021 abbiamo assistito a una rapida risalita dopo il crollo pandemico, nel 2022 la crescita ha tirato il freno. Nel 2021, infatti, le nuove assunzioni nette sono state 713 mila; nel 2022 si sono fermate a 441 mila. Le agevolazioni sembrano non funzionare: solo il 4,5% sostiene che sono state importanti ai fini delle loro decisioni. E da queste decontribuzioni la popolazione femminile esce spesso penalizzata, infatti nessuno strumento è riuscito ad attivare almeno il 50% di donne.

A tenere banco resta la questione salariale: tra il 1991 e il 2022 le retribuzioni italiane sono salite appena dell’1%, contro il 32,5% di media Ocse. Solo nel 2020 – anno di fase acuta del Covid – i salari reali sono scesi del 4,8%. Abbiamo un problema di scarsa produttività: nel 2021 abbiamo raggiunto un divario del 25,5% rispetto agli altri Paesi del G7. Tuttavia, queste scarse performance della produttività non possono da sole spiegare il fenomeno dei salari fermi al palo, perché – come detto – la crescita delle buste paghe è comunque ancora più lenta. Tra l’altro, proprio il dibattito sulla produttività crea una distorsione: oggi, infatti, in genere si tende a riconoscere aumenti di salario solo a patto di aver già raggiunto aumento di produttività. Tuttavia, proprio “la possibilità di mantenere basso il costo del lavoro per unità di prodotto per questa via, anche se la produttività non cresce, non può certo considerarsi di per sé un incentivo perché le imprese investano in innovazione per aumentare la produttività”. Insomma, un cane che si morde la coda: se le aziende possono contenere il costo del lavoro, tenendo bassi i salari, non sono spinte a investire per accrescere la produttività.

Il presidente Inapp, Sebastiano Fadda, è intervenuto nel dibattito politico sul salario minimo. Il governo, infatti, ha appena affossato l’idea di introdurre il salario minimo legale e ha scelto di adottare un provvedimento – che arriverà tra sei mesi – limitato all’estensione dei contratti nazionali. “Non esistono ragioni – ha spiegato Fadda – né sul piano analitico né sul piano dell’evidenza empirica per escludere strumenti di altro tipo basati sull’imposizione di una soglia minima invalicabile”. Insomma, non c’è alcun motivo per escludere di introdurre un salario minimo per legge, accanto a misure che diano impulso ai contratti collettivi.

L’istituto ha anche indagato il fenomeno delle grandi dimissioni. Sembra però escludere che in Italia possano essere definite in quel modo. Perché è vero che in questi anni vediamo numeri in crescita di chi si licenzia spontaneamente dal lavoro, ma il 60% di chi lo ha fatto ha trovato un’altra occupazione già nel giro di un mese, quindi “sembra potersi dedurre che il fenomeno rappresenti un processo di riallocazione dovuto alla ricerca da parte dei lavoratori di migliori condizioni”. In ogni caso, secondo la ricerca Inapp, esiste un malcontento diffuso: sono 3,3 milioni i lavoratori che hanno quantomeno pensato all’ipotesi di lasciare il posto. L’1,1% l’ha valutato anche a costo di un peggioramento del tenore di vita; il 13,5% solo a patto di trovare “altre forme di reddito”. Tra i settori nei quali questi pensieri sono più diffusi abbiamo il turismo: “La coincidenza con molti profili per i quali i datori di lavoro lamentano difficoltà di reclutamento è significativa”, ha aggiunto Fadda.

Ancora, l’Inapp ricorda che in Italia siamo indietro in tema di smart working e soprattutto di riduzione dell’orario di lavoro. La nostra forza-lavoro invecchia anche per fattori demografici. Nel 2002, per ogni mille under 40, ne avevamo poco più di 900 over 40. Nel 2023, invece, per ogni mille under, ne abbiamo ben 1.400 over. Il settore con la popolazione più anziana è proprio la pubblica amministrazione. Resta il problema delle competenze che non vengono formate e aggiornate: l’apprendistato mantiene una scarsa capacità di attrazione e solo il 9,6% della popolazione tra 25 e 64 anni ha partecipato a programmi di istruzione e formazione.

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