L’ex militante di Prima Linea Francesco D’Onofrio non finirà a processo per l’assassinio del magistrato Bruno Caccia, ucciso a Torino il 26 giugno 1983. Lo ha stabilito il gip di Milano Mattia Fiorentini, archiviando su richiesta della stessa Procura il fascicolo a carico di D’Onofrio (già condannato per partecipazione alla ‘ndrangheta e possesso illegale di armi) e Tommaso De Pace, già indagato in passato. Il primo era stato chiamato in causa nel 2016 dal collaboratore di giustizia Domenico Agresta, che aveva detto ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Torino di aver appreso in carcere che D’Onofrio faceva parte del commando insieme a Rocco Schirripa, il panettiere già condannato in via definitiva come esecutore dell’omicidio Caccia. In particolare, l’ex terrorista rosso era sospettato di essere il secondo uomo a bordo della Fiat 128 verde sulla quale fuggirono gli assassini.
Nel 2019 alle dichiarazioni di Agresta si sono aggiunte quelle del pentito Andrea Mantella, che ha rivelato una confidenza fattagli da un altro uomo d’onore (Carmelo Lo Bianco, morto nel 2014 ma per quarant’anni al vertice dell’omonima cosca di Vibo Valentia) durante un funerale: D’Onofrio, aveva detto il boss, si era “mangiato un giudice a Torino”. Ai primi di dicembre però il difensore dell’indagato, l’avvocato Roberto Lamacchia, ha eccepito l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di Mantella perché arrivate fuori tempo massimo, cioè oltre il termine per concludere le indagini preliminari. Deadline che è rimasta la stessa anche dopo l’avocazione dell’inchiesta decisa a novembre 2018 dalla Procura generale di Milano. Nell’ordinanza di archiviazione il gip non entra nel merito delle dichiarazioni rese da Mantella, ma ne ricorda le contraddizioni en passant: nel 2016 aveva negato di sapere qualcosa sul coinvolgimento di D’Onofrio nell’omicidio, salvo ritrovare la memoria nel 2019 e nel 2021, riportando confidenze ricevute di persona o de relato.
“D’Onofrio per il suo spessore criminale poteva benissimo essere uno degli assassini, aveva il pedigree giusto“, avevano scritto la procuratrice generale di Milano Francesca Nanni e la sostituta Maria Pia Gualtieri nella richiesta di archiviazione depositata a luglio. La sua presenza sul luogo dell’agguato, però, secondo le magistrate non è mai stata più di una congettura. All’archiviazione si è opposta la famiglia Caccia, con una memoria depositata dal legale Fabio Repici in cui si chiedeva di sentire nuovamente Mantella e il pentito del clan Papalia Rosario Barbaro, nonché di portare avanti “la ricerca di chiarimenti sullo scenario” in cui è maturato l’omicidio e “di eventuali interferenze dei servizi segreti sullo svolgimento delle conseguenti indagini”. Tutte richieste rifiutate dal gip: “A quarant’anni di distanza dai fatti”, scrive, “non sono utili all’accertamento della verità processuale, muovendosi per lo più su binari congetturali”.
Sono ancora molte, però, le zone d’ombra sull’omicidio del magistrato, che nemmeno due processi e tre inchieste sono riusciti a illuminare. Il primo ha individuato come mandante il boss della ‘ndrangheta Domenico Belfiore, poi condannato all’ergastolo con sentenza definitiva, mentre il secondo ha assicurato alla giustizia Rocco Schirripa, 63enne di Gioiosa Ionica ritenuto far parte dello stesso sodalizio. Gli inquirenti milanesi, coordinati dal pm Marcello Tatangelo, erano arrivati al panettiere ascoltando i dialoghi tra Belfiore e altri ‘ndranghetisti, tra cui Placido Barresi, boss ed ergastolano. Entrambe le sentenze sono d’accordo nel sostenere che Caccia fosse un ostacolo alle attività criminali della malavita organizzata in Piemonte e Valle d’Aosta: proprio nel periodo in cui fu uccido, infatti, stava indagando su casi di riciclaggio di denaro sporco al Casinò di Saint-Vincent. Anche per questo i familiari hanno sempre insistito affinché si indagasse su una pista alternativa che intreccia mafia e servizi segreti, possibilità sfumata con l’archiviazione. Che gran parte dei componenti del gruppo di fuoco (almeno cinque) resti tuttora ignota lo aveva ammesso però anche il sostituto procuratore generale della Cassazione, Alfredo Viola, nella sua requisitoria contro Schirripa: in quell’occasione, il magistrato aveva parlato di “trame ampie e complesse” che restano in gran parte da chiarire.