Sono di queste ore due vicende che mostrano come le donne a parole debbano essere protette dalle violenze e le si esorti a denunciare ma nella realtà se osano farlo vengano scarnificate.

Sto parlando della vicenda di Silvia Mari, la giornalista accusata di diffamazione a mezzo stampa dopo aver condotto l’inchiesta “Mamme coraggio” e per la quale si celebra oggi a Roma la prima udienza del processo. L’inchiesta, promossa dall’agenzia Dire, era dedicata al fenomeno delle consulenze tecniche basate sull’alienazione parentale che incidono sulle scelte dei magistrati e ai prelevamenti forzosi dei minori strappati alle mamme. In generale, le querele ai giornalisti costituiscono un’arma di ricatto per cui il Consiglio d’Europa ha appena rampognato l’Italia e Mari per il suo lavoro di inchiesta che ha evidenziato prassi che vedono vittime mamme e bambini da molti anni merita stima e gratitudine.

L’altra vicenda cui mi riferisco è quella delle domande incalzanti su dettagli come in che modo sono stati tolti gli slip o come mai la ragazza non avesse azzannato chi le imponeva un rapporto orale rivolte in tribunale alla giovane che ha denunciato uno stupro di gruppo da parte di quattro giovani uomini. Come lo sono state in altre occasioni domande quali il numero di partner avuti in precedenza dalla vittima – con il sottinteso che una donna che faccia le proprie scelte in ambito sessuale sia una donnaccia – o insinuazioni sul presunto gradimento degli atti subìti. Si tratta in realtà di due facce della stessa medaglia, che è la rivittimizzazione della donna che denuncia.

Ho già parlato su questo blog delle perizie che evocano l’alienazione parentale, per le quali la Corte di Cassazione ha parlato di illegittimità e di “fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”. In quell’occasione ebbi a dire che quello che deve essere in primo piano è il superiore interesse del minore, perché questo non dovrebbe essere divisivo. Infatti non si può pensare che sia interesse del minore prenderlo con la forza o collocarlo in una casa famiglia lontano dal suo ambiente purché non stia con la madre che aveva denunciato l’ex e si trova a sua volta accusata illegittimamente di PAS. La Cassazione la ritiene una misura “non conforme ai principi dello Stato di diritto”.

Dissi anche che non credo che le donne siano tutte buone. E credo che ogni accusa vada dimostrata in tribunale. Quindi questo non è un discorso favorevole ad uno specifico genere ma una questione di metodo che anche gli uomini possono condividere pensando di non essere quell’ex marito o quell’accusato di stupro ma il padre o fratello di una donna che si trovi in una delle situazioni descritte. Perché uno può ben pensare che dietro un’accusa di violenza possano statisticamente esserci altre motivazioni ma se una donna è sotto effetto dell’alcool il presunto consenso non sarebbe valido comunque. E le domande su dettagli che trovano risposta nell’alcool ingerito risultano solo una inutile sofferenza psicologica e umiliazione pubblica inferta alla presunta vittima.

L’avvocata che ha incalzato la giovane, alla critica che si entrava nella intimità della vittima ha dichiarato, secondo la stampa: “Il fatto di cui discutiamo è un fatto di violenza sessuale e non c’è niente di intimo in una violenza sessuale. O è una cosa intima o è una violenza sessuale. E il processo si fa per capire se è stata una cosa intima o violenza sessuale”. Capisco che un legale debba offrire al suo assistito la miglior difesa possibile, ma la violenza sessuale va di per sé a ledere la sfera intima, non ne è avulsa, e le domande che scendono in dettagli riguardanti la sfera intima richiedono delicatezza. Inoltre è ragionevole che una persona che era in stato di ebbrezza non abbia avuto reazioni coerenti con la ripulsa per gli atti subiti e non ricordi ogni minimo dettaglio dell’accaduto.

Ma la Suprema Corte ha stabilito che affinché non ci sia un “valido consenso” al rapporto sessuale è sufficiente che sussista una condizione di incapacità o incoscienza psicofisica a prescindere se tale stato sia stato volontariamente provocato dall’aggressore o derivante da una volontaria assunzione di alcol (o droghe) da parte della vittima. Quindi basta accertare questo.

In definitiva, lo Stato ma anche la società (media e social) rivittimizzano le donne che osano ribellarsi ad una violenza imposta e questo, care donne che colpevolizzano le altre donne violentate o divorziate perché “se l’è cercata” e cari uomini convinti che una donna non veda l’ora di avere un rapporto violento e di gruppo o sia di certo la responsabile dei problemi con l’ex, è un pessimo segnale e terreno di difesa per le vostre figlie (e nipoti, nel caso di prelevamenti forzosi) qualora dovessero trovarsi in situazioni simili o peggiori. Ma capirlo allora sarà troppo tardi.

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