di Fiore Isabella
Sono molto perplesso sulla effettiva efficacia del piano di educazione affettiva a scuola del ministro Valditara; e non perché il ministro tutto sommato aveva pensato a tre figure di donne dalle quali abbiamo tutti da imparare. La mia perplessità nasce dal concetto pedagogico di affettività che trova terreno fertile nella relazionalità e nella cura della convivenza, che non nasce e non si esaurisce nella scuola dei nostri figli. In una scuola peraltro dove confluiscono esperienze diverse maturate nelle famiglie, nei quartieri depennati di piazze, nella politica senza luoghi di confronto e lasciata perire, in una bagarre senza fine, nelle piazze mediatiche dove spesso il linguaggio si discosta dai binari del civile confronto e diventa aggressivo.
Gli stessi giornali, in particolare quelli di destra, utilizzano espressioni più familiari ad una impresa edile specializzata in demolizioni che ad un contesto editoriale. Trovare l’espressione, a commento delle sistematiche liti televisive, come “Tizio ha asfaltato Caio” non è una novità ma un sintomo ormai assodato del linguaggio decadente di certa politica.
E allora che fare? Io credo che la scuola debba essere luogo di cultura e socialità in grado di produrre, contrapponendosi ad ogni spinta privatistica, etica, cultura e comunicazione. Spetta agli insegnanti il compito profetico di coniugare una competenza strumentale ad una competenza relazionale. Ed in questo processo non sono sufficienti delle brave garanti; è indispensabile, invece, una sistematica contaminazione tra scuola e territorio in cui la scuola ritorna ad essere “del territorio” e non del Ministero dell’Istruzione e (ahimè che termine stravagante!) del merito.
Nel suo bel libro La Scuola Mite, Raffaele Iosa, a metà degli anni 90, pensava ad un sistema unico della scuola di base in grado di aprire opportunità per un sistema integrato più coerente, per accompagnare “il bambino/ragazzo verso una società aperta e comune, entro cui sta come a casa sua, è la sua casa, e la sua piazza non è la falsa piazza della televisione, ma quella degli incontri e delle opportunità”. Aggiungo io, la piazza dove ci si guarda in volto e si sorride e non ci si volta le spalle.