“Il rito juju non ci deve fare sorridere. È qualcosa di violentissimo, di brutale: il taglio delle unghie, il taglio dei peli pubici, il sangue mescolato a una pozione che viene fatta bere. È caratterizzato da tutta una serie di rituali che ci sembrano usciti da un film dell’orrore. Eppure sono reali”. Le parole del sostituto procuratore della Dda Sara Amerio hanno anticipato di qualche ora la sentenza emessa stasera dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria, presieduta dal giudice Natina Praticò, che ha condannato uno dei boss della mafia nigeriana, Favour Obazelu, a 26 anni di carcere, uno in più di quanti ne aveva chiesti, stamattina, il pm durante la sua requisitoria.

Capo di un culto chiamato “Supreme Vikings Confraternity” e già condannato per associazione mafiosa dal Tribunale di Bari nell’ambito del processo “Drill”, Obazelu è stato riconosciuto colpevole in primo grado per i reati di associazione a delinquere, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale.

Assieme a un fratello e ad altri soggetti rimasti ignoti, che si trovano in Libia e in Nigeria, infatti, l’imputato nigeriano è ritenuto il promotore di un’organizzazione criminale transnazionale che ha reclutato in patria donne da condurre con l’inganno in Italia e qui avviarle alla prostituzione.

Al centro del processo c’è la storia di una ragazza nigeriana per la quale l’imputato era stato arrestato nel febbraio 2022 dalla squadra mobile di Reggio Calabria. Una storia sintetizzata dal pm durante la sua requisitoria: “Una donna giovanissima – ha spiegato il magistrato in aula – che ha attraversato un viaggio incredibile attraverso il deserto, che è stata tenuta in campi di detenzione, che è stata sottoposta a vessazioni e che poi, una volta raggiunta la terra promessa dell’Italia, sbarcata sulle nostre coste, si è trovata a vivere un dramma ancora peggiore, ancora più infernale, senza avere la possibilità di uscire, costretta a diventare un oggetto materiale. Siamo di fronte a una ragazza priva di alternative esistenziali che non aveva la possibilità di scegliere una vita diversa”.

Dopo un viaggio in cui ha attraversato il deserto del Niger fino alla Libia, infatti, la ragazza di 21 anni ha tentato di raggiungere il nostro Paese stipata in un barcone. Salvata in mezzo al Mediterraneo da una nave militare, è sbarcata a Reggio Calabria nel 2014 per poi scappare dal centro di accoglienza grazie all’aiuto di alcuni connazionali. Poche ore dopo era già a Bari, dove il “bar di Jessica”, in cui le era stato promesso un posto di lavoro, ovviamente non esisteva. Piuttosto era una “connection house”, un’abitazione in cui le ragazze nigeriane venivano violentate e picchiate. Costretta a prostituirsi per ripagare il proprio debito di 25mila euro, non è riuscita a farlo e le è stato rubato anche un figlio, nato da uno stupro subito da Favour Obazelu, l’imputato che si faceva chiamare coi soprannomi “Fred” e “Friday”. Obazelu avrebbe minacciato di morte la famiglia della ragazza nel caso in cui si fosse ribellata.

Per la Procura di Reggio Calabria, Obazelu aveva organizzato tutto: dal rito voodoo al viaggio della speranza, fino allo sfruttamento della ragazza che, durante il processo, ha avuto il coraggio di ripetere in aula le angherie subite dal boss dei “Vikings”. Un “Cult” che è una sorta di cosca composta da nigeriani che si fanno chiamare “i rossi” e sono “operativi – è scritto nelle carte della Dda – tra la Nigeria e l’Italia. E in particolare a Reggio Calabria, Bari e in altre città della Puglia”.

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