di Giuseppe Mammana
Orientarsi nel conflitto israelo-palestinese appare un compito molto complicato. Ad oggi si contano più di 17.000 morti, 1.200 israeliani uccisi dall’incursione di Hamas, più di 4.000 bambini palestinesi morti e 2 milioni di palestinesi che hanno perso la propria casa. Inoltre, secondo l’Unicef, nel sud di Gaza cadono bombe ogni 10 minuti.
Anche i giovani palestinesi denunciano, da tempo, un clima di violenza contro la loro comunità: come l’aggressione alla portavoce del movimento romano – durante il corteo del 25 novembre nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne – perché accusata di sventolare la bandiera della Palestina. Ma anche quella avvenuta negli Stati Uniti, in cui un uomo ha aperto il fuoco contro tre studenti universitari palestinesi che indossavano la kefiah.
A fronte di tutto questo esiste un’ostilità mediatica antipalestinese?
Se analizziamo lo scenario italiano, sembrerebbe di sì, alcuni quotidiani parlano delle manifestazioni che invocano il cessate il fuoco a Gaza (come quella del 2 dicembre) rimarcando l’elemento del terrorismo: le manifestazioni servono a sostenere i “tagliagola di Hamas” e descrivono i manifestanti come “faziosi rompiscatole” che partecipano allo stesso modo in cui “45 anni fa si sfilava in sostegno dei brigatisti”.
L’utilizzo di retoriche linguistiche aggressive non caratterizza solo gli articoli di alcuni quotidiani, ma anche le dichiarazioni degli stessi capi di governo che utilizzano lo stesso registro: come le parole del ministro dell’Interno israeliano, che a seguito dell’attentato di Hamas definisce “animali” la popolazione palestinese per giustificare il taglio dell’acqua, del gas e degli altri approvvigionamenti essenziali. Anche Biden – uno dei più importanti finanziatori di queste campagna militare – ricorda spesso nelle sue dichiarazioni come Hamas “utilizza i civili come scudi umani” e “taglia le teste e brucia vivi donne e bambini”. E quando le vittime dei civili si moltiplicano è necessario rimarcare il “diritto all’esistenza”: il governo reagisce perché vittima di un piano genocida orchestrato dall’odio cieco di Hamas supportato dall’Iran.
Ma esiste una strategia comunicativa? In realtà sì: le frasi rientrano nel Global Language dictionary, realizzato da Israele nel 2009, in cui si spiega quali terminologie i sostenitori di Israele devono utilizzare con i mass-media nei racconti del conflitto. Ma c’è un altro elemento che caratterizza la campagna comunicativa del governo israeliano e dei suoi alleati, ovvero l’antisemitismo: qui troviamo coloro che sostengono l’esistenza di affinità tra Hamas e il nazismo e quelli che denunciano di come la comunità ebraica non sia più libera di girare tranquillamente per strada. L’incursione di Hamas del 7 ottobre rimanda ad “Auschwitz”, al “ritorno della Jihad”, “ai pogrom” o addirittura ad “interpretazioni distorte del Corano” che implicano una “visione degradata dell’ebreo”.
Sul sito osservatorioantisemitismo.it troviamo una lettera di una studentessa di origini ebree, che frequenta La Sapienza, in cui lamenta l’esistenza di un clima di antisemitismo che si respira nelle aule universitarie. Ma esiste una relazione tra l’antisemitismo e i cambiamenti politici promossi dal governo israeliano? Anche qui emergono dei legami. Una legge approvata nel 2021 dal Governo Netanyahu, e confermata dalla stessa Corte Suprema, rimarca il carattere ebraico dello stato definendo Israele uno stato-nazione del popolo ebraico. Tale provvedimento isola la minoranza musulmana amplificando ancora una volta un black-out storico. Perché malgrado la risoluzione Onu del 1948, che prevedeva una spartizione equa tra arabi e israeliani, Israele nel 1967 decide di espandere i confini territoriali, in barba alle risoluzioni Onu, occupando altri territori come Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola del Sinai (ripresa dall’Egitto nel 1978).
Ad oggi l’occupazione continua, a Gaza e nei territori occupati, in particolare in Cisgiordania, attraverso la costruzione di insediamenti illegali che avviene spesso con la complicità dei giudici della Corte Suprema. Si delinea uno scenario paradossale: perché, mentre nel caso del conflitto russo-ucraino invocare il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina non implica l’accusa di genocidio contro la popolazione russa, nel caso palestinese ecco che improvvisamente il supporto all’autodeterminazione si tramuta in sostegno al genocidio israeliano.
Il dramma è che siamo di fronte all’ennesima pulizia etnica; almeno questo dimostra un documento dell’intelligence israeliana (del 13 ottobre 2023), di 10 pagine, scoperto dal +972 Magazine, in cui si dispensano consigli sulle strategie da attuare contro i palestinesi della Striscia di Gaza. Nel piano è riportata tutta la strategia di guerra israeliana attuata fino ad oggi: prima l’evacuazione dei civili da nord a sud per permettere il bombardamento della parte settentrionale. Nella seconda fase, il bombardamento a sud e dopo l’incursione via terra e l’occupazione di tutta la Striscia con la pulizia dei bunker sotterranei dei combattenti di Hamas. Infine, il documento prevede di lasciare aperto il valico di Rafah, al confine con l’Egitto, per procedere al trasferimento forzato della popolazione nel Sinai settentrionale creando prima dei campi profughi e dopo insediamenti permanenti.
Il piano consiglia al governo di promuovere una campagna pubblica nei paesi occidentali per giustificare il trasferimento. In ultimo vengono riportate le indicazioni da seguire per ottenere l’appoggio della comunità internazionale: presentare il provvedimento come una soluzione umanitaria sostenendo come il mancato trasferimento aumenterebbe la conta dei morti.
Quale sarà il destino degli abitanti di Gaza e dei palestinesi?