Durissima presa di posizione della redazione di Repubblica contro l’editore John Philip Elkann. A soli due giorni dall’intervista di Carlo De Benedetti al Foglio in cui l’ex patron del quotidiano romano ha parlato di “massacro incomprensibile nei suoi scopi” a proposito dei primi quattro anni da proprietario del “gruppo editoriale che il principe Carlo Caracciolo, suo prozio, aveva creato in circa quindici anni” e di “Repubblica, che ancora si aggira tra i quotidiani italiani con la maestà malinconica delle rovine”, i giornalisti del quotidiano capitolino si sono schierati contro una nuova richiesta aziendale di un piano di tagli contestandolo “in modo netto e radicale”.

I giornalisti in particolare puntano il dito contro una “politica assolutamente inadeguata per garantire la stabilità economica della testata che anzi verrebbe ulteriormente impoverita di un patrimonio di esperienze e competenze”. E chiedono ai loro rappresentanti sindacali, il Comitato di redazione (Cdr), di non aprire alcuna trattativa senza la presentazione di “un chiaro ed esaustivo piano editoriale, nel quale siano circostanziati: gli investimenti necessari per il rilancio della testata, gli obiettivi che ci si propone di raggiungere con organici ulteriormente ridotti nonché i progetti che coinvolgono le redazioni nel loro complesso”.

Ma soprattutto l’assemblea dei redattori della testata “pone inoltre un ineludibile tema di responsabilità rispetto alla crisi che sta attraversando Repubblica” sottolineando come al netto delle difficoltà congiunturali, “i risultati economicamente negativi sono da ascrivere anche alle scelte della linea editoriale che non riesce a intercettare nuovi lettori e che ha allontanato il tradizionale pubblico di riferimento della testata Repubblica; ma anche alle strategie del management, frutto di previsioni errate e di risultati ancora non sufficienti a garantire l’equilibrio dei conti, in particolare nello sviluppo del digitale”.

I giornalisti e le giornaliste di Repubblica non vorrebbero essere gli unici a pagare il conto di “decisioni spesso non condivise, anzi non di rado contestate”. E così hanno affidato al Comitato di redazione un pacchetto di cinque giorni di sciopero da utilizzare “qualora non arrivassero le risposte richieste prima dell’apertura di una trattativa sulla riduzione dei costi del lavoro, che dovrebbe basarsi su due principi: totale volontarietà delle uscite e reintegro dei numeri redazionali”.

Posizioni che ricordano quelle dei colleghi del Corriere della Sera quando, nella primavera del 2016, Fiat aveva venduto la sua quota nel quotidiano milanese per mettere un piede in quello della famiglia De Benedetti. Allora i redattori del Corsera avevano espresso “forte sconcerto e indignazione per la nota con la quale Fca ha annunciato il disimpegno da RcsMediagroup. È paradossale il riferimento al senso di responsabilità sbandierato da Fca che si vanta di aver ‘salvato in tre diverse occasioni il gruppo Rcs assicurando risorse finanziarie necessarie”. Secondo i giornalisti dell’ex quotidiano del salotto buono, la verità era “un’altra. È sotto gli occhi di tutti come in questi anni, in cui il gruppo torinese è stato al primo posto tra i nostri azionisti con un ruolo decisivo nella scelta del management, la società editrice del Corriere della Sera sia stata progressivamente e pesantemente impoverita con scelte industriali disastrose. Come gli investimenti in Spagna, che ancora pesano in maniera decisiva sui conti del gruppo, e con un supporto finanziario del tutto inadeguato”.

Non solo. I giornalisti del Corsera avevano rinfacciato a Elkann di essersene andato dopo aver contribuito a saccheggiare la casa editrice: “La società, invece di essere ricapitalizzata è stata spolpata con la dismissione degli immobili, compresa la sede storica di Via Solferino, e svuotata delle partecipazioni più rilevanti, come Rcs Libri. Tutte operazioni condotte dall’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, uomo Fiat, accompagnate da una dolorosa e drastica riduzione del personale poligrafico, amministrativo e giornalistico, che sta tuttora sopportando i sacrifici dell’ennesimo piano di crisi aziendale”. Quindi l’affondo: “Finita la stagione dei dividendi, ora che lo sfascio finanziario è compiuto, e che il Corriere è lanciato in un progetto editoriale coraggioso e senza precedenti, basato unicamente sullo sforzo della redazione, la famiglia Agnelli saluta e se ne va a rafforzare il principale concorrente del Corriere della Sera – avevano concluso i redattori – Bel modo di fare. Come se la squadra degli ingegneri di una scuderia di Formula1 alla vigilia della prima gara di campionato passasse con le idee e i progetti elaborati alla guida del team rivale”.

Tornando a Repubblica, il piano proposto passa per un taglio dei costi attraverso la riduzione del personale più costoso, ma anche più preparato, a spese dello Stato visto che prevede il prepensionamento di 46 giornalisti che sarà agevolato a fronte dell’assunzione di altri 23 prevedibilmente junior. Repubblica, che nel 2011 contava quasi 450 redattori, oggi ne ha meno di 330 e viaggia su una perdita annua di 15 milioni, ma fa sempre parte di un gruppo, Exor, che ogni fanno fa miliardi di utili. I prepensionamenti farebbero risparmiare 5 milioni sul costo del lavoro, ma non ci sono contropartite sul fronte delle vendite, che vanno in picchiata. Da gennaio 2022 a oggi Repubblica ha perso il 30% circa delle copie. Sotto la direzione di Carlo Verdelli il quotidiano in edicola era vicino al Corriere che superava nettamente sull’online. Dopo tre anni di cura Molinari, il Corriere ha doppiato Repubblica scippandole anche il primato sul web.

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