Nel passaggio dal Reddito di cittadinanza (Rdc) all’Assegno di inclusione (Adi), la nuova “misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli” al via dal primo gennaio 2024, il governo ha escluso 900mila famiglie dalla platea dei potenziali beneficiari. “Si stima che i requisiti anagrafici ed economici più restrittivi dell’AdI riducano la platea dei potenziali beneficiari da 2,1 a 1,2 milioni rispetto all’RdC; il calo interessa sia le famiglie italiane sia, nonostante l’allentamento del requisito di residenza, quelle di origine straniera”, ha scritto la Banca d’Italia nel rapporto “La revisione delle misure di contrasto alla povertà in Italia“. Chi avrà diritto all’Adi riceverà meno: “Il reddito disponibile delle famiglie nel primo decimo della distribuzione del reddito disponibile equivalente (quelle più povere, ndr) diminuisce in media di circa 1.300 euro annui (-11 per cento)”. Risultato, la nuova misura sarà meno efficace nel contrasto alla povertà e alla disuguaglianza: “Nel passaggio dall’RdC all’AdI risultano maggiori sia l’incidenza della povertà assoluta (di 0,8 punti) sia l’indice di Gini (di 0,4 punti)”. Più nel metodo che nel merito, l’analisi è stata contestata dalla ministra del Lavoro Marina Calderone. “Non sono affatto convinta dell’analisi fatta. La mia sensazione è che non si sia guardato agli strumenti e alla riforma introdotta mettendo insieme i due capitoli, il Supporto per la formazione e lavoro e l’Assegno di inclusione. Al primo gennaio 2023 avevano 763mila nuclei familiari percettori di Reddito di cittadinanza in condizione di fragilità, quella è la nostra platea per l’Adi”, ha detto la ministra nella conferenza stampa di lunedì 18 dicembre, primo giorno per presentare le domande Adi che, secondo i dati riferiti, alle 13 erano 40mila. In tutto sono oltre 700mila i nuclei che secondo il governo si apprestano a fare richiesta, direttamente online, nella sezione dedicata del sito Inps utilizzando SPID, CNS e CIE o rivolgendosi a un Patronato. In alternativa, ma solo dal primo gennaio, anche attraverso i CAF. Se l’istruttoria della domanda avrà esito positivo, toccherà poi accedere al Sistema di Inclusione Sociale e Lavorativa (Siisl) e sottoscrivere il Patto di Attivazione Digitale del nucleo familiare (PAD), augurandosi che Inps e ministero del Lavoro siano intanto riusciti a risolvere i tanti problemi della piattaforma.
Torniamo ai dati: più poveri senza un sostegno al reddito, dunque. Un risultato che Giorgia Meloni ha appena rivendicato dal palco della festa di Fratelli d’Italia a Roma. Dove l’incontro che ha avuto per protagonista la ministra del Lavoro Marina Calderone, dal titolo “Giù dal divano”, riassume bene la strategia che il governo dice di perseguire, oltre al risparmio da 1,7 milioni di euro nel 2024. Più elegantemente, sull’ipotesi che dare meno soldi a meno persone si traduca in un incentivo all’occupazione, Bankitalia si augura che una risposta positiva dell’occupazione possa “attenuare o controbilanciare gli effetti negativi in termini redistributivi”. Poi, al contrario della maggioranza di governo, aggiunge che “osservando le caratteristiche degli attuali percettori del RdC, almeno nel breve periodo, il percorso di (re)inserimento lavorativo non sarà tuttavia privo di difficoltà”. E’ il famoso elefante nella stanza, quello che i più continuano a far finta di non vedere. Il rapporto di Bankitalia lo descrive così: “Secondo i dati dell’IBF relativi al 2020, gli adulti tra 18 e 59 anni delle famiglie che percepivano l’RdC erano caratterizzati da bassi livelli di scolarità e scarse esperienze lavorative pregresse. Circa l’80 per cento possedeva al massimo la licenza media e circa la metà dei disoccupati lo era da oltre 5 anni. Ciò inoltre era vero sia per gli individui in nuclei in possesso dei requisiti anagrafici per accedere all’AdI sia per quelli in famiglie prive di tali requisiti”, quelle che Meloni e soci hanno ribattezzato “occupabili” e che al massimo potranno accedere al Supporto formazione e lavoro, i 350 euro al mese per un massimo di 12 non rinnovabili destinati a chi segue corsi o parteciperà ai Progetti utili alla collettività dei comuni, salvo complicazioni come quelle raccontate dal Fatto, dovute principalmente alla nuova piattaforma nazionale Siisl che fatica a leggere i dati inseriti attraverso quelle regionali: così la persona non risulta attiva e l’Inps non paga. I dati sulle effettive erogazioni? L’Istituto continua a tenerli per sé.
Che affamare gli “occupabili” li renda davvero occupabili è una teoria che si scontra con la realtà. “Quanto questo maggiore stimolo a cercare un impiego si tradurrà in maggiore occupazione dipende dalla domanda di lavoro”, sintetizza Bankitalia, ricordando che, alla fine, se il lavoro non c’è la disperata volontà di trovarne uno non modifica i grandi numeri. La conferma è nell’ultima Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat. Le tabelle sul tasso di occupazione delle persone tra i 15 e i 64 anni indicano una variazione positiva, rispetto al terzo trimestre 2022, per tutte le categorie: maschi e femmine, più o meno giovani, residenti al Nord come al Sud, italiani come stranieri. Così anche per chi ha conseguito il diploma o la laurea. L’unico dato in calo è quello di chi ha il titolo di studio più basso, che fatica a trovare lavoro anche in un momento di occupazione in lieve ripresa. Dati che litigano con le regole del nuovo Assegno di inclusione, che impone ai percettori in grado di lavorare di accettare un’offerta a tempo indeterminato ovunque essa sia, anche a mille chilometri di distanza, pena la decadenza dal sussidio. Un’idea di contrasto alla povertà che nulla ha a che fare con le ragioni dell’indigenza nel nostro Paese, spesso ereditaria, soprattutto in alcune aree del Mezzogiorno. Nondimeno, una rimodulazione del sussidio può senz’altro essere presa in considerazione. Tra le misure simili in Europa, il Rdc è stato tra le più generose e sociologi come Chiara Saraceno, che durante il governo Draghi ha presieduto la commissione di esperti sul Reddito di cittadinanza, si sono detti favorevoli a ridimensionare la misura, anche per evitare possibili effetti negativi sul lato occupazionale. Meno soldi ad altrettante persone o magari a più persone, visto che la misura non ha mai coperto integralmente gli oltre 5 milioni di persone in povertà presenti in Italia. Sussidi ridotti per non disincentivare la ricerca di lavoro, come pure è stato segnalato da centri per l’impiego e datori di lavoro, soprattutto al Sud dove il Reddito ha avuto un potere d’acquisto maggiore. Un risparmio poteva essere conseguito, magari senza rinunce in termini di equità. Il governo ha fatto altre scelte.
Tutti affari di quei 5,6 milioni di poveri che vivono oggi in Italia? Gli altri possono girarsi dall’altra parte, basta far finta che non esistano? Fino a un certo punto. Nel 2022, confermando la percentuale dell’anno precedente, il 20,1% dei residenti è a rischio di povertà. Si tratta di circa 11 milioni e 800mila persone che nel 2021 hanno avuto un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, cioè 11.155 euro. Significa che una persona ogni sei di quelle che incrociamo per strada è a rischio di diventare povera. Il rischio di povertà è poi inversamente correlato ai livelli di istruzione e tra gli stranieri è più che doppio rispetto ai cittadini italiani. Ma attenzione: il 65% dei lavoratori dipendenti in nuclei a rischio di povertà ha un impiego a tempo indeterminato, il 56,3% è occupato a tempo pieno e circa i tre quarti sono cittadini italiani (75,6%). Ci sono poi 2,6 milioni di persone che si trovano in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, che presentano cioè almeno sette dei tredici segnali di deprivazione individuati dal nuovo indicatore Europa 2030, sette relativi alla famiglia e sei all’individuo. Sono tutti dati ufficiali, come quello in cui l’Istat ci dice che il 9,8% degli individui vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, quelle con componenti tra i 18 e i 64 anni che nel 2021 hanno lavorato solo per un quinto del tempo o meno. Di più: la quota di individui che si trova in almeno una delle suddette tre condizioni riferite a reddito, deprivazione e bassa intensità di lavoro, e cioè la popolazione a rischio di esclusione sociale, è il 24,4%, ovvero 14,3 milioni di residenti. Tra coloro che incrociamo per strada, uno su 4 è in questa condizione. Individui costretti a rinunce importanti, dalla cura della salute all’alimentazione, con figli che rischiano a loro volta la povertà educativa. Condizioni che si tradurranno in costi per mancata prevenzione e bassa istruzione, che a loro volta produrranno esclusione e nuova povertà, presentando un conto più salato di quanto non sia il risparmio rivendicato oggi dal governo.