Questa intervista è stata pubblicata da FqMillennium nell’ottobre del 2017. La riproponiamo, in occasione della morte di Antonio Negri, in quanto conserva intatta la sua attualità.

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A intervistare Antonio Negri ci si va in corteo. Letteralmente. Nel giorno dell’incontro, sotto casa del fondatore dell’Autonomia operaia, processato e condannato a 12 anni di galera, oggi intellettuale noto in tutto il mondo, manifestano contro la “loi travail” di Macron. Negri osserva dalla finestra sopra Montparnasse; l’indomani andrà al sit-in di Jean-Luc Mélenchon, poi partirà per il Brasile per un ciclo di conferenze sulla Rivoluzione russa. Sta per uscire il suo nuovo libro, Assembly, sui Movimenti mondiali e discutere con lui del ’68 significa parlare di carne viva. «Ho avuto una vita spericolata» dice citando Vasco Rossi, ma «non ho rimpianti: tranne – sorride – non avere ancora visto una moltitudine di cattivi maestri». La testa è rivolta ancora al futuro, alle possibilità di rivoluzione. E alla sconfitta del ’68 viene imputata la stagnazione nostrana: «Se l’Italia è un Paese marcio è perché quel decennio è stato massacrato».

Si considera un sessantottino?
Mi sento essenzialmente un uomo degli anni Sessanta e Settanta. La mia militanza è cominciata nel luglio ’60, ai tempi della rivolta contro il governo Tambroni, quando ero segretario della Federazione di Padova del Psi, nella corrente morandiana. Fu un’esperienza in cui scoprii nel mio Veneto, un proletariato antifascista attivo e operaio, non sindacalizzato, che veniva alle riunioni con un’arma sotto il cappotto. Era gente della Resistenza, che sulla “svolta di Salerno” di Togliatti ci rideva su. Eravamo tutti degli estremisti.

Da segretario del Psi andò in Urss insieme al comunista Armando Cossutta: come fu quel viaggio?
Fu molto provante, ebbi anche una reazione allergica, e fui ricoverato in un sanatorio nel Caucaso. Il viaggio era stato importante, fummo ricevuti da Suslov. Una volta rientrato in Italia mi sono convinto che il tentativo di cambiamento di Kruscev venne fermato da un blocco burocratico statale feroce. Quando tornai, inoltre, mi avvicinai anche a Panzieri e dal 1961 cominciai a collaborare ai Quaderni rossi.

Renato Panzieri, ideatore della rivista fondatrice dell’operaismo, è stato un maestro?
No, è stato un compagno e insieme abbiamo cominciato a costruire esperienze di autonomia operaia già negli anni Sessanta. L’amicizia di Panzieri mi ha messo in contatto con una stratificazione di comunisti e socialisti che protestava contro il togliattismo. In quel periodo nel Veneto nasce anche “Viva il leninismo”, una frazione marxista-leninista interna al Pci e collegata agli operai di Marghera e della Bassa Veneta.

Cosa è stato il ’68?
Per me è stato il ’67 a Porto Marghera, la lotta operaia del Comitato di allora, che era una cosa enorme. Ci si batteva per le 5.000 lire uguali per tutti, contro la nocività delle lavorazioni, ma la volontà primaria era di conquistare il potere in fabbrica e tramite quello il potere. Una idea leninista classica e forte nella Pianura Padana industriale. Non eravamo però solo operai, c’erano gli studenti di Architettura a Venezia in lotta dal ’65, come del resto a Trento. Avevamo rapporti con la Germania già forti nella seconda metà degli anni Sessanta. E proprio Architettura di Venezia tirò fuori gente come Massimo Cacciari che poi entreranno in Potere operaio. In testa alle manifestazioni c’era anche il grande musicista Luigi Nono.

Quando capisce che è scoppiato qualcosa?
Quando vedo gli studenti di Architettura tornare dalla manifestazione contro il tentato omicidio di Rudi Dutsckhe, il leader del ’68 tedesco (ferito da un colpo di arma da fuoco, ndr): “Siamo in una situazione rivoluzionaria” dicono. Il ’68 tedesco mi aveva colpito molto, una rivendicazione di democrazia radicale contro i padri, nazisti, e contro un sistema culturale bismarkiano. Lo scontro della fase si coglie proprio nel tentativo di omicidio di Rudi. Il ’68 è una modernizzazione anche capitalistica che vuole sviluppare le forze produttive e tramite queste le forme di vita. E però si trova di fronte una barriera che è quella della politica democratica, borghese.

Comincia già allora un odio contro il ’68 che non si è mai fermato: da cosa deriva?
Da una cultura reazionaria che si afferma in parallelo. Mi vengono in mente le frasi di Francis Fukuyama: “Come possiamo permettere che degli studenti, degli operai, dei negri, delle donne, dei drogati blocchino lo sviluppo?”. I padroni capiscono che le fabbriche non sono governabili e nel ’73 si ha una reazione internazionale, con la fondazione della Trilateral (promossa da Rockefeller e di cui fa parte anche Gianni Agnelli, ndr) che dà il via al rinnovamento liberale della storia contemporanea. Io da operaista, penso che siano i movimenti di classe che determinano la risposta del capitale, nel ’68 dietro al rapporto studenti-operai comincia la rivoluzione digitale e il lavoro intellettuale. Negli Usa cambia la faccia del Paese, vengono messi in discussione i pilastri della società borghese, la casa, la famiglia, la proprietà. Il ’68 è una svolta “biopolitica” radicale. E questo non va bene, fa saltare tutti gli equilibri precedenti. Il ’68, così, è anche la sua repressione.

Ha affermato che il ’68 è “un albero sontuoso” che dura dieci anni.
In Italia dura un decennio. E questo permette di esprimere un punto di vista più alto e più maturo. Il ’68 francese fallisce con gli accordi di Grenelle (tra sindacati e governo e che spengono gli scioperi, ndr) mentre quello tedesco non ha avuto mai una dimensione operaia se non alcuni anni più tardi con gli scioperi di Colonia. La politica del governo francese divide i vari fronti e prova ad assorbire il Movimento studentesco, per esempio integrandolo nell’università , costruendone dieci a Parigi e dando spazio alle alternative culturali. In Germania c’è stato un processo di assorbimento di cui Jurgen Habermas è un esponente. In Italia gli studenti si mescolano completamente agli operai, la cultura operaista impregna tutti. In Italia dire ’68 è la confluenza del Movimento studentesco e il Movimento operaio.

Da cosa deriva questa eccezionalità italiana, anche dalla forza del partito comunista?
Certamente, il ’68 è figlio anche del comunismo italiano, di questo sono assolutamente convinto. Luigi Longo (allora segretario del Pci, ndr), da buon combattente, lo aveva capito ma era stato l’unico. Il Partito, in cui di fatto governa la destra di Amendola, si mette contro. Ma in Italia è anche forte il peso del clericalismo e così è forte la ribellione anticlericale: il femminismo e le donne che si ribellano ai diktat dei preti lo dimostrano. C’è poi una specifica migrazione interna che ha prodotto una classe operaia eccezionale e straordinaria. Il tipo di scioperi selvaggi alla Fiat sarebbero stati impossibili senza quel tipo di manodopera.

Eppure, alla fine, il Pci sembra recuperare, i consigli operai vengono animati dalla Cgil e dalla Fiom di Bruno Trentin…
In realtà la grande disgrazia del Pci è che gli operai finiscono fuori dalle fabbriche. Noi lo avevamo capito. Loro non hanno capito che gli operai non volevano più lavorare e i padroni, che sono stati più intelligenti di Amendola e della destra Pci, hanno capito che bisognava cambiare modo di produzione. I Consigli sono stati una cosa molto equivoca: hanno funzionato per un anno e mezzo, ma dopo li hanno imbastarditi e castrati.

Il ’68, ha affermato, dura un decennio e trova la sua maturità nel ’77…
Il ’68 è una ribellione attorno alla fabbrica, il ’77 è una ribellione civile che investe la città. Nel ’77 ci sono studenti, operai e la città che è diventata il luogo produttivo. Di saperi, merci, servizi. Il ’77 è la conclusione di una coscienza che è venuta sviluppandosi. Una maturità che lascia sbalorditi, per esempio, i francesi Deleuze e Guattari. C’è la vita che non vuole essere mercificata, la vita che risponde al dominio capitalistico con una rivendicazione di libertà, di affetti, di ricchezza di espressioni. C’è una grande maturità e lì scoppia una resistenza fortissima, quando lo reprimono la gente si incazza, ma si incazza perché a quel punto toccano la vita di ciascuno

Dopo il ’77, però, lei viene chiamato in causa per le violenze di quel periodo, il “processo 7 aprile”, l’esilio e anche la galera.
Tra gli undici anni di galera e i 14 di esilio ho passato 25 anni coinvolto in questa vicenda, mi sembra abbastanza.

Si sente una vittima?
No, assolutamente. Mi sento una persona che vive e che ha avuto una vita complicata, anzi, per citare Vasco Rossi, posso dire di avere avuto una “vita spericolata”. Mio figlio che ha 17 anni me lo dice sempre.

In quegli anni insegna Dottrina dello stato a Padova. Professore con attorno una decina di docenti tutti di sinistra. Da lì la nomea di “cattivo maestro ”: lo è stato?
Veramente non sono mai stato nemmeno un maestro, piuttosto un compagno fra altri, con più mezzi di altri ma le cose che ho detto non sono mai state un testo di studio, non mi son mai sentito un dirigente.

Beh, non può negare di aver ricoperto questo ruolo…
Sì, ma lo sono stato insieme ad altri. Sono diventato un intellettuale “puro” solo in galera, quando ho iniziato a scrivere libri di storia della filosofia, che poi hanno avuto risonanza internazionale. Avevo scritto testi scientifici poco prima di ottenere la cattedra universitaria, nel ’63, ma fino alla galera ho sempre scritto cose da militante, centinaia di articoli nei giornaletti dove non si firmava, ero un intellettuale completamente organico a un processo.

Delle molotov, del passamontagna o del sabotaggio ha fatto l’elogio. Anche qui, rivendica tutto?
Nessuno si scandalizzava, erano parole comuni. Ora che per il centenario della Rivoluzione russa mi sono rimesso a leggere gli intellettuali di quel periodo, quelli sovietici o quelli tedeschi, mi accorgo che al loro confronto il linguaggio che usavo io era mite.

Nemmeno indirettamente sente qualche responsabilità per l’epilogo? Il decennio del ’68 finisce con una sconfitta e finisce con la lotta armata…
La lotta armata l’ho vissuta molto male, ma bisogna sempre ricordare che il ’68 italiano è stato attaccato dal principio con le bombe fasciste, con lo Stato che si è schierato contro uno sviluppo in fondo normale in una democrazia decente. La responsabilità della morte di Moro non ce l’hanno solo quelli che l’hanno ucciso, né solo i Dc che hanno permesso che fosse ucciso, ma un sistema politico che non ha voluto capire che gli anni Settanta sono stati un periodo di creazione, di vitalità. Io rivendico dall’inizio alla fine il lungo ’68 italiano, quello che Erri De Luca (intervistato su Fq Millennium n.4, ndr) ha chiamato gli “anni di rame” e non gli “anni di piombo” e le responsabilità della sua sconfitta dobbiamo prendercele tutti. Se oggi l’Italia è questo Paese asfittico, vergognoso, è perché sono mancate tutte le generazioni di mezzo. Quando parli del ’68 non si può fingere di riferirlo al suo solo numero, ma a dieci anni in cui l’Italia è diventata matura e sul momento della sua maturazione e le forze che lo hanno fatto sono state attaccate e distrutte.

Quanti ’68 ci sono stati dopo nel mondo? Può indicare qualcosa di paragonabile a quell’evento?
Sì, Tienanmen. Una rivolta dei giovani comunisti che volevano riformare lo Stato di Pechino nel nome del maoismo. Gli scrittori cinesi lo scrivono apertamente, io vado spesso in Cina. Tienanmen è stato un grande movimento di modernizzazione radicale, di approfondimento di un modello comunista. Ed è stata castrata e distrutta. Con una repressione però che somiglia di più a quanto avvenuto in Francia che in Italia, nel senso che gli intellettuali di punta del Movimento sono stati mandati in campagna per alcuni anni e poi inseriti nell’Università e hanno ripreso la loro attività. Molti sono rientrati nel partito.

E altre esperienze?
La rivolta del 2001 in Argentina, la costruzione del Pt (il partito dei lavoratori, ndr) in Brasile, Solidarnosc degli inizi, l’89 nell’Est.

Che cosa pensa della sinistra oggi nel mondo?
È il momento peggiore per rispondere a questa domanda. In altri momenti avrei detto che esiste una certa possibilità. Ora mi pare davvero difficile. C’è stata Syriza ma è finita male, in parte Podemos.

In Italia il M5S ha una qualche attinenza con le nuove forme della politica?
I 5 Stelle hanno respirato l’aria del 2011, quella che ha prodotto grandi movimenti come gli Indignados spagnoli, la Gezi Park turca, piazza Tahrir in Egitto, ma anche le mobilitazioni di Rio che hanno fatto fallire il governo di sinistra. Godono di quella sorgente sociale, ma l’hanno virata verso destra, trasformata in una forma populista cattiva, simile a Macron: un centrismo che si incarica di sostituire la vecchia socialdemocrazia. Certo, il populismo del presidente francese è un populismo di Stato che trova l’unità di Le Monde e Le Figaro. In ogni caso i 5 stelle non sono la destra lepenista ma qualcosa di nuovo.

Da dove crede si debba ricominciare per una ipotesi di trasformazione del mondo?
Non è semplice, siamo in una fase davvero complicata. L’appoggio ai migranti mi sembra fondamentale così come rimettere in gioco i diritti di cittadinanza. Credo molto nelle esperienze cooperative, in una intraprenditorialità della moltitudine. Non c’è modo di uscire da una crisi civile e produttiva se non si inventa un nuovo modo di produzione, se non si ha una prospettiva materiale vera. Lenin prometteva “l’elettricità e i Soviet”, anche noi dobbiamo trovare la nostra elettricità accanto a soviet da reinventare. L’attenzione resta ancora puntata sui nuovi strati del lavoro cognitivo. E una parola d’ordine molto vitale è ancora fare inchiesta.

Ha una bella età, 85 anni, una storia complessa, qual è la sua più grande soddisfazione?
Le soddisfazioni sono tante, la vita personale, i figli, i nipoti. E poi il successo scientifico, vedere che la cultura operaista è fondamentale in tutte le università del mondo. Ad Harvard mi hanno chiesto di dirigere la sessione estiva, ma il governo Usa non mi dà il permesso di entrare in quel Paese. Più che orgoglioso di essere conosciuto all’estero, però, sono arrabbiato per quello che mi è accaduto in Italia.

E il più grande rimpianto?
Sono spinozista, la speranza e la disperazione le ritengo cose dubbiose, senza consistenza. Ma forse il vero rimpianto è di non aver visto ancora una moltitudine di cattivi maestri.

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