Due date cerchiate in rosso, ravvicinate e probabilmente senza nuovi appelli perché il tempo stringe. Il 20 e il 22 dicembre saranno giornate decisive per il futuro dell’ex Ilva di Taranto. Mercoledì il governo incontra i sindacati e due giorni dopo si terrà il nuovo round dell’assemblea di Acciaierie d’Italia che dovrà decidere il rifinanziamento da parte dei soci – ArcelorMittal (62%) e Invitalia (38%) – per evitare il collasso del siderurgico. Ci sono tre scenari possibili a fronte di una sola certezza: l’incertezza sul finale della partita a scacchi tra il socio privato e quello pubblico per decidere chi e quanto deve versare per permettere all’acciaieria di non spegnersi definitivamente.

La guerra con i Mittal su 1,5 miliardi – Tutto ruota attorno ai 320 milioni di euro necessari nell’immediato e al miliardo e mezzo che permetterebbe ad Acciaierie d’Italia di acquistare gli asset da Ilva in as (ancora proprietaria degli impianti) e tornare così bancabile, cioè avere accesso al credito. Dal 23 novembre, giorno della prima assemblea, ArcelorMittal si dice indisponibile a versare la propria quota (circa 900 milioni di euro) e nell’ultima riunione ha presentato una memoria legale – che suona come ‘minaccia’ di una vera e propria azione formale – nella quale contesta allo Stato di non aver adempiuto ad alcuni obblighi finanziari per decarbonizzare l’impianto. Nel frattempo, il colosso franco-indiano ha deconsolidato la sua filiale italiana – cioè l’ha tolta dal bilancio di gruppo – lasciando intravedere la possibilità di un disimpegno.

I due scenari più probabili – Dall’altra parte Invitalia chiede ad ArcelorMittal di versare quanto dovrebbe in base al suo 62% ma, se il socio privato non si piega, la controllata dal ministero dell’Economia non potrà tentennare oltre. Di fronte a un nuovo rifiuto e con il rischio del collasso degli impianti, dovrà salire in maggioranza – convertendo il prestito obbligazionario da 680 milioni di euro già versato in primavera – oppure in qualità di socio pubblico che detiene almeno il 30% di società strategiche (come l’ex Ilva) potrà far scattare la legge Marzano richiedendo la procedura di amministrazione straordinaria, uno scenario che dal Pd quasi incoraggiano. Se alla fine sarà Invitalia a farsi carico del futuro dell’acciaieria tarantina, Palazzo Chigi si troverà nella scomoda soluzione di dover ingegnarsi per trovare un nuovo partner industriale.

Le mosse fallimentari di Fitto Non solo: si tratterà anche di una sconfitta politica del ministro Raffaele Fitto, il fedelissimo di Giorgia Meloni che negli scorsi mesi ha sfilato il dossier al collega Adolfo Urso proprio perché il ministro delle Imprese spingeva per il ritorno dell’ex Ilva in mani pubbliche. Aver firmato un memorandum of undestanding con ArcelorMittal per garantire miliardi di euro di fondi europei per la decarbonizzazione, senza informare Invitalia e fidandosi delle garanzie dell’ad Lucia Morselli, non è servito a nulla. Il colosso dell’acciaio non ha intenzione di garantire la propria partecipazione al rifinanziamento di Acciaierie d’Italia e anzi accampa pretese risarcitorie. Un fallimento su tutta la linea per l’ex presidente della Regione Puglia.

La Fiom: “Risposte o non ce ne andremo” – Quale sarà la strategia del governo – che si dice “pronto” a intervenire anche in caso di addio di Mittal – inizierà a capirsi mercoledì 20, quando è previsto un incontro a Palazzo Chigi con i sindacati metalmeccanici. I rappresentanti dei lavoratori chiedono di avere risposte certe e intravedono una sola strada possibile: “Chiediamo alla presidente del Consiglio di coordinare i ministeri interessati per dare una risposta definitiva condividendo la salita in maggioranza dello Stato e l’immediata messa in sicurezza delle persone”, avvisa il segretario della Fiom Cgil Michele De Palma. Una “giornata decisiva”, viene definitiva, durante la quale “non lasceremo l’incontro fino a quando non avremo una risposta chiara: l’assunzione di responsabilità da parte del governo attraverso la salita in maggioranza”, sottolinea De Palma.

Il fronte sindacale compatto – I metalmeccanici hanno sempre mantenuto un’unità d’intenti sull’Ilva e anche nel momento più drammatico dell’acciaieria – un solo altoforno in marcia, meno di 3 milioni di tonnellate prodotte nel 2023 – il fronte è compatto. La richiesta della Fiom è identica a quella di Uilm e Fim, ma anche dell’Usb: cacciare Mittal, riportare la fu Italsider sotto il controllo statale e rilanciarla per quanto e come sarà possibile visto lo stato degli impianti. La pressione dei sindacati sul governo è ormai fortissima, visti i 20mila posti di lavoro in ballo tra occupati diretti e dipendenti delle aziende dell’indotto. Tanto che Rocco Palombella, leader della Uilm, ha più volte usato il termine “rivoluzione” per indicare quale sarà la strada che gli operai percorreranno, in caso di inazione dell’esecutivo, a difesa degli impianti. O di ciò che ne rimane dopo anni di incuria.

@andtundo

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