Che bella la canzone di una volta. Pardon, il film. Aki Kaurismaki è una tradizionalista esasperato. Compone e ricompone lo stesso film da una ventina d’anni. Lui, lei (l’altro), un cane (un bambino). Solitari in cerca di calore umano e di una qualche alcolica forma di catarsi. La società individualista che schiaccia la solidarietà comunitaria. Un velo srotolato e accuratissimo di straniante ironia. Una parabola che da singolare si fa universale intinta nella cinefilia. Potremmo fermarci qua e usare queste righe per illustrare l’impalcatura della consolidata poetica ed estetica di una star del cinema d’essai europeo.
Poi arriva Fallen leaves, in italiano Foglie al vento, e capisci che siamo di fronte ad una prova formale austera e in purezza, che richiama quello “stile trascendente” che Paul Schrader argomentava per Ozu, Bresson, Dreyer. Per capire, appunto, Foglie al vento, bisogna poi mettere da parte qualsiasi forma analitica di “realismo psicologico” (Schrader, appunto, docet) e scontare la fobia antirussa dei finlandesi che qui abbonda fuor di metafora sforacchiando radiofonicamente qua e la l’atmosfera spirituale apparecchiata attorno ad Ansa (Alma Poyisti), riempitrice di scaffali in un supermercato, e Holappa (Jussi Vatanen), saldatore alcolizzato che vive nel container aziendale. Siamo nella moderna, spesso serale/notturna, Helsinki di oggi.
Contrasto evidente tra margini scrostati e levigata profondità di campo urbana, la storia procede per piccoli incontri ed incidenti, speranze e disillusioni. Lei viene licenziata per un eccesso di etica antiaziendale (regala cibo scaduto e si intasca un panino marcito); lui, sotto l’effetto della vodka, si ferisce e viene cacciato dal lavoro. I due si conoscono sulle note di un karaoke, vanno nella sala d’essai a vedere un film di Jarmush, lei lo invita a cena ma lui perde subito il biglietto su cui è scritto il numero di telefono (non ci sono smartphone o tecnologie post ’89 nel cinema di Kaurismaki), poi ancora: l’arrivo di un cagnetto, la disgrazia, la salvezza, il ricongiungimento e l’inquadratura finale di Tempi moderni.
Così come in tutto il suo cinema Kaurismaki estrapola l’essenza di ogni battuta del proprio discorso (sulla solitudine, sull’esistenza, sul capitalismo) con la semplicità di immobili primi piani e mezzi busti; non forsenna la recitazione che anzi mantiene come sempre una catatonica antispettacolarità; evita ulteriori accumuli e sottolineature di senso attraverso il montaggio. Invece è sul versante del commento musicale, scenografico e fotografico che il regista finlandese spinge verso un cosmo riconoscibile e minimale, melanconico e vagamente nostalgico (i brani tradizionali, pop e in finlandese di qualche decennio beat fa), in modo da avere un quadro pitturato di dettagli colorati caldi e di ombre comico espressioniste sui muri d’interni.
C’è proprio una luce peculiare nel cinema di Kaurismaki che sembra evocare gli spiriti della cinefilia (il film è zeppo di locandine, sottolineature, rimandi al cinema amato e fatto dalla Nouvelle Vague) come la solitudine dell’uomo di fronte ad un anonimo schiacciante sistema. Così, proprio sgrezzato di fuorvianti sentimentalismi (baci e copule addio), che Ansa e Holappa si ritrovino comunque, seppure sgangherati, zoppicanti e senza un maledetto euro, insieme verso un orizzonte possibile, è un messaggio che travolge e commuove in maniera identica ad ogni latitudine del globo. Premio della Giuria a Cannes 2023.