Gol o autogol? Difficile valutare il no del Parlamento italiano alla ratifica dell’Italia della riforma del fondo europeo Mes. O meglio, la valutazione è semplice ma diametralmente opposta a secondo da che punto di vista la si guarda. Certo è che il no blocca tutto il resto dell’Eurozona, i cui membri hanno tutti da tempo approvato il documento. Questo porterà inevitabilmente ad una resa dei conti con Bruxelles, questione politica di non poco conto.
Nato nel 2012 con la missione di prestare soldi agli stati che faticano a finanziarsi in autonomia sui mercati, il Mes non è stato esente da critiche. Vi hanno fatto ricorso cinque paesi: Irlanda, Portogallo, Grecia, Spagna e Cipro. Poi più nessuno, un po’ perché la situazione sui mercati si è tranquillizzata, un po’ perché le esperienze non sono state sempre gratificanti. La concessione dei prestiti avviene infatti dietro condizionalità. In soldoni significa che il Mes può chiedere riforme che intaccano anche la sfera sociale dei paesi richiedenti in cambio del suo sostegno. È un po’ la stessa cosa che fa il Fondo monetario internazionale che però utilizza criteri ancora più severi. Forse non a caso, a presiedere il Mes c’è il lussemburghese Pierre Gramegna, che ha lavorato anche con il Fmi. Va precisato che il ricorso ai prestiti del Mes è un’ autonoma decisione dei singoli stati. Ma quando le alternative svaniscono è un po’ difficile parlare di libera scelta e c’è chi, scherzosamente, paragona il Mes all’ Hotel California degli Eagles: “You can check out any time you like. But you can never leave!”…puoi entrarci quando vuoi ma poi non puoi più andartene. Per esattezza, uscire dal Mes è sempre possibile ma non è detto che sia semplice.
Si spera che l’Italia non si trovi mai in queste condizioni ma, visti i numeri delle nostre finanze pubbliche, siamo iscritti d’ufficio tra i paesi più a rischio. Il debito in rapporto al Pil è il più alto in Europa dopo quello greco e, nei prossimi anni, per effetto dell’aumento dei tassi Bce anche il costo degli interessi che paghiamo sui nostri titoli è destinato a salire. Le stime parlano di 5,5 miliardi in più nel 2025 e di 9 miliardi in più nel 2026 quando il costo del debito raddoppierà rispetto al 2020. In teoria, la presenza di un’ “entità” con il compito di intervenire in caso di necessità è un fattore che potrebbe rassicurare i mercati e quindi agire da calmiere sull’aumento dei rendimenti in caso di crisi. Da questo l’Italia avrebbe da guadagnare anche in termini di contenimento dei rendimenti. Ed è giusto ricordare che l’Italia ha chiesto prestiti all’Europa per circa 120 miliardi di euro nell’ambito del Pnrr. Che gli altri paesi vogliano dotarsi di uno strumento più forte per garantirne la restituzione è sensato.
La riforma, a questo punto bloccata da Roma, avrebbe infatti rafforzato anche questo ruolo del Mes ma, a dire il vero, pone dei requisiti per l’accesso ai prestiti non molto favorevoli all’Italia. Viene infatti richiesto che sia stato rispettato il percorso di riduzione del debito previsto dai trattati europei. Una regola che è comunque considerata possibile oggetto di una successiva revisione. L’altra novità è che il Mes avrebbe un ruolo “di seconda istanza” anche nella risoluzione di crisi di banche europee. A tal fine esiste già il fondo SRF che è finanziato dalle stesse banche ma che ha una dotazione insufficiente (80 miliardi) a gestire fallimenti su larga scala. Una volta esauriti i fondi entrerebbe in azione il Mes. Diversi osservatori ritengono che l’Italia abbia usato usando la ratifica della riforma come merce di scambio per ottenere condizioni più favorevoli nel nuovo patto di Stabilità. A dire il vero senza grandi risultati visto che alla fine ha sostanzialmente prevalso la linea tedesca che reintroduce rigidi controlli su deficit e debito.