Il 12 dicembre scorso la magistratura italiana, in nome del Popolo Italiano e per voce della Corte d’appello di Firenze, ha respinto il ricorso dei familiari delle vittime della strage Moby Prince contro la sentenza che aveva impedito loro di chiedere conto allo Stato per il mancato soccorso pubblico ai propri 140 cari, deceduti la notte tra il 10 e 11 aprile 1991 davanti al Porto di Livorno anche per l’assenza di quel salvataggio dovuto e non fornito.
La notizia è stata ripresa da molti media nazionali, ma merita a mio parere un approfondimento più preciso per capire il livello di impatto sulla vita di tutti noi che di fatto questa sentenza giudiziaria innesta.
La Corte d’appello di Firenze ha infatti respinto il ricorso dei familiari delle vittime della strage Moby Prince per un motivo sostanziale: nega una verità storica accertata da una Commissione d’inchiesta parlamentare, una verità storica che contraddice un falso storico scritto nel 1997 dal Tribunale di Livorno nella prima sentenza penale sul caso Moby Prince.
L’oggetto del contendere è tutto in un solo documento: la perizia medico legale disposta dalla Commissione d’inchiesta parlamentare del Senato della Repubblica grazie alla quale, dal 22 gennaio 2018, i familiari delle vittime hanno appreso che i loro cari sono sopravvissuti ore dopo l’incidente tra il traghetto in cui erano imbarcati – il Moby Prince – e la petroliera Agip Abruzzo. Ore in cui hanno sofferto pene inenarrabili fino a perire allo stremo di ogni forza proprio per l’assenza di un salvataggio dovuto dalle autorità pubbliche.
I testi normativi della nostra Repubblica Italiana raccontavano infatti allora nel 1991, come oggi, che persone come le 140 vittime della strage Moby Prince avrebbero dovuto ricevere soccorso dalle autorità pubbliche preposte dopo l’incidente marittimo che li aveva interessati: in prima battuta doveva intervenire la Capitaneria di porto, per la strage Moby Prince quella di Livorno, e – davanti alla sua inefficienza o difficoltà – la Marina Militare. Due autorità, queste, rappresentative della Repubblica Italiana, del suo Stato e della sua Costituzione.
Ebbene, la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, chi vestiva i panni di queste autorità statali non ha coordinato il soccorso pubblico verso le 140 persone imbarcate sul Moby Prince. Non ha neanche tentato di salvarle. E fino al 22 gennaio 2018 lo Stato Italiano poteva fare spallucce a riguardo perché l’ultimo atto giuridico che si sia interessato del tema sopravvivenza a bordo del traghetto Moby Prince aveva sancito, per voce del Tribunale di Livorno, che tutte le 140 persone morte quella notte erano decedute entro le 22.55 del 10 aprile 1991, quindi a massimo mezz’ora dalla collisione, quando lo Stato nulla avrebbe potuto fare per soccorrerle e salvarle, per oggettivi motivi tecnici di tempo materiale di raggiungere la scena della collisione con imbarcazioni adatte a operare sui mezzi coinvolti.
Dal 22 gennaio 2018 lo Stato però non può più fare spallucce. Non dovrebbe più sentirsi in pace a riguardo, ovvero non responsabile della morte di quelle persone innocenti. Perché quelle persone innocenti sono sopravvissute per ore, qualcuno persino fino alla mattina del giorno dopo. E il fatto di non averle soccorse ha concorso alla loro morte.
Eppure la sentenza della Corte d’appello di Firenze arriva a garantire l’impunità assoluta. E lo fa secondo un principio devastante sul piano dei diritti umani per tutto il popolo italiano: la verità non basta a generare diritto. Un Tribunale può arbitrariamente negarla e così renderla innocua, inutile, persino dannosa per chi la conosce perché lo condanna all’impossibilità di ottenere giustizia, quindi all’idea di non essere realmente un cittadino come la Costituzione Repubblicana ha promesso.
Tutto questo è intollerabile tanto quanto brutalmente reale. Provate a immedesimarvi per un attimo nei familiari delle vittime della strage Moby Prince. La novità sancita dalla perizia medico legale della Commissione d’inchiesta del Senato sul caso Moby Prince, ovvero il lungo tempo di sopravvivenza di larga parte delle vittime, è provato da una serie di elementi oggettivi raccolti negli anni dai loro familiari e sempre portati all’attenzione della magistratura, così come delle Commissioni d’inchiesta nate sul caso. Purtroppo fino alla Commissione d’inchiesta del Senato della Repubblica (2015-2018) nessun rappresentante dello Stato, magistrato o governativo, aveva compreso la portata della verità raccontata da quegli elementi oggettivi. Quindi nessuno li aveva creduti.
Poi nel 2018 arrivò quello che i familiari delle vittime hanno letto, a mio parere giustamente, come un riconoscimento ufficiale. Quella verità non era un’opinione di parte, né è riducibile – come scritto dal Tribunale di Firenze – ad un “atto politico” riconoscerla. Perché quella verità era scritta nero su bianco nel lavoro consulenziale di due figure terze di specchiata professionalità: i professori Gian Aristide Norelli e Elena Mazzeo. Entrambi, all’epoca di quella perizia disposta dalla Commissione d’inchiesta parlamentare, professori ordinari di medicina legale in due importanti università italiane. E quello che fecero Norelli e Mazzeo, di fatto, fu semplicemente portare alla Commissione d’inchiesta parlamentare un lavoro serio, terzo e scrupoloso su dati e informazioni note da quasi trent’anni nei fascicoli processuali conservati dal Tribunale di Livorno.
Ecco perché la verità dei lunghi tempi di sopravvivenza sul Moby Prince e quindi della responsabilità impunita dello Stato nella morte di 140 persone ci dice che su questa vicenda è stato operato un depistaggio di proporzioni difficilmente comparabili con altri eventi della storia repubblicana. Fu un depistaggio ogni atto o omissione attraverso cui si è sancita la falsità della breve vita a bordo del Moby Prince dopo la collisione.
Fu un depistaggio la perizia medico-legale arrivata sul tavolo del Pubblico Ministero sulla base della quale si arrivò alle richieste di rinvio a giudizio per quattro figure minori della vicenda. Fu un depistaggio la perizia ingegneristica con cui il Tribunale di Livorno raccontò di uno scenario incompatibile con la vita a bordo “venti minuti dopo la collisione” e fu un depistaggio il non aver disposto una consulenza medico-legale terza sui tempi di sopravvivenza delle vittime durante il processo di primo grado, durante il processo d’appello e durante le due inchieste penali successive. Furono depistaggi rispetto al diritto alla verità e al diritto alla giustizia imposti dalla nostra Costituzione Italiana.
Se il nodo centrale di un accertamento penale è quando come e perché sono morte delle persone, com’è possibile che queste informazioni non siano interessate e sembra continuino a non interessare alla magistratura italiana sul caso Moby Prince?
Attendiamo la risposta dalle ultime stanze di giustizia che si stanno occupando da quasi sei anni dell’inchiesta sul caso: Procura di Livorno e Dda di Firenze. Ancora rimaste in silenzio a riguardo.
Da persona che ha speso molto tempo, e tanto continuerà a spenderlo, per aiutare i familiari delle vittime Moby Prince nella loro ricerca di verità e giustizia, questa situazione mi indigna profondamente. Per qualcuno nella magistratura italiana, come mi fu detto, “Moby Prince non è Ustica”. Io continuo a pensare che sia vero, ma per il motivo contrario: è molto peggio. A chi non si rassegnerà, il compito di dimostrarlo, per quanto ancora sia possibile a quasi 33 anni dai fatti.